martedì 7 ottobre 2014

Fang-Yi Sheu nel ruolo di Colei Che Danza in Letter to the World di Graham

Fang-Yi Sheu è una delle più raffinate danzatrici Graham della sua generazione. Non è più membro della Graham Company ma spesso torna in qualità di artista ospite. Il 6 agosto del 2011 presso il Gerald Ford Amphitheatre ha danzato l'assolo di apertura di Letter to the World di Graham, ricostruito dal direttore artistico della compagnia Janet Eilber. Qui il link alla registrazione video fatta da Sergei Krasikof.

È un video molto prezioso in quanto fornisce un'idea di come il pezzo potrebbe essere oggi. La Graham Company, infatti, non lo ricostruisce e presenta dal 1988 e l'unico video disponibile al pubblico è in bianco e nero e custodito alla New York Public Library for the Performing Arts, con un'incredibile Pearl Lang nel ruolo da protagonista.

Questo assolo presenta il personaggio principale come una viviace ragazza senza espereinza alla ricerca della sua strada. Ella si muove in direzioni differenti, corre, si ferma e si muove di nuovo. Danza alcuni splendidi salti girati che vengono sottolineati dall'ampia gonna. Piega poi il torso in avanti diverse volte e danza una breve sezione alla panchina (durante la coreografia tornerà alla panchina in più di un'occasione). È una vera gioia guardare questa parte a colori (per la mia ricerca ho studiato il video in bianco e nero)!

Vi sono variazioni e cambiamenti qua e là in questo assolo riadattato che si pone, però come una coreografia squisita danzata in modo molto preciso da Fang-Yi Sheu. Allo stesso tempo, è importante ricordare da dove viene questo pezzo. Come si è detto rappresenta la prima danza di Colei Che Danza che, un attimo prima, si trova accanto a Colei Che Parla, la cui presenza viene solo evocata da questo rifacimento attraverso i versi dickinsoniani: "Non sapendo quando l'alba verrà / apro ogni porta", tratti dalla poesia 1619. La presenza di Colei Che Parla è strumentale per lo sviluppo della coreografia. Ella incarna l'altra Emily, l'Emily che parla e che si muove in modo più cauto rispetto a Colei Che Danza, seppure con la medesima forza. E i versi sono anch'essi molto importanti in quanto tracciano l'evoluzione del "viaggio interiore" di Colei Che Danza. L'espressione "viaggio interiore" veniva utilizzata da Graham stessa per esprimere questo particolare stato dell'anima.

Sono davvero contenta di questo breve passaggio coreografico e spero che Letter to the World venga presto ricostruita per intero.


Questo articolo è stato originariamente pubblicato in inglese nel mio altro blog, qui il link.

7 ottobre 2014

Il toro, la mucca, il ritmo e la danza

TOROBAKA DI ISRAEL GALVÁN E AKRAM KHAN 
Romaeuropa Festival, Auditorium della Conciliazione, Roma, 25 Settembre 2014, ore 21

Khan and Galván, foto Jean Louis Fernandez.
Ci sono un toro e una mucca ('toro' e 'baka' nel titolo), violenza e pace, flamenco e kathak e c'è un po' di Spagna e India in Torobaka di Israel Galván e Akram Khan, spettacolo che ha aperto il festival Romaeuropa 2014. Secondo gli stereotipi la Spagna viene associata al flamenco e ai tori e l'India al kathak e alle mucche, ma questa coreografia è molto di più, in quanto ci porta in una dimensione dove l'eccellenza, l'ironia, l'intensità, il confrontarsi e il ritmo si mescolano in una performance superba.

Innanzi tutto il flamenco del coreografo e danzatore spagnolo Israel Galván è e non è flamenco, è piuttosto uno stile fenomenale che lo decostruisce dal didentro, spezzandone le linee e portando la sua natura percussiva a livelli quasi aerei. Poi vi è il kathak di Khan, che nel suo provocatorio lavoro coreografico, viene reinventato e miscelato con la danza contemporanea, fornendo un senso di appartenenza e una qualità tridimensionale al corpo in movimento.

Ecco già che le immagini iniziali di toro e mucca si sono sgretolate, perché Torobaka ha sì a che fare con l'incontro con l'Altro, ma è anche un oltrepassare simboli e stereotipi per raggiungere il ritmo pulsante in cui noi tutti viviamo. Possiamo chiamrlo un duetto? Galván e Khan sono i soli due danzatori sul palco e interagiscono molto fra loro, però il termine 'duetto' ha solo senso se lo moltiplichiamo, trasformandolo in una serie stratificata di altri che giocano un ruolo fondamentale nel pezzo: mi riferisco ai due musicisti, Bobote e B. C. Manjunath, ai due cantanti, David Azurza e Christine Leboutte e al ritmo e produzione di suoni.

La coreografia è suddivisa in varie sezioni e ha luogo su di un palco che in parte è coperto da una piattaforma circolare circondata dai musicisti e cantanti. All'inizio Galván e Khan sono entrambi scalzi mentre si affrontano, esplorando spazio e suono. Indossano lo stesso costume, una tunica che richiama il kathak e pantaloni aderenti che riportano al flamenco. Perfetto è il 'dialogo' fra
l'articolazione dei piedi di Galván e le percussioni di Manjunath.


Azurza, Galván, Leboutte, foto Jean Louis Fernandez.
Poi Galván indossa le sue scarpe di flamenco e danza un assolo al di fuori del cerchio, in avanti sulla destra, con un microfono. Di nuovo Manjunath è il suo alter ego che gioca con i movimenti di lui come Galván gioca con i suoni vocali di Manjunath. L'ironia è l'aspetto che emerge con più forza nella danza di Galván, irresistibile è il momento in cui punta il dito in alto esclamando "E.T. telefono casa". Questo è flamenco con piglio comico! Quando danza lo zapateado (movimento dei piedi nel flamenco) dentro il set di campane kathak di Khan, sappiamo che un cambiamento sta per avvenire e che Khan entrerà in scena.

Nella terza sezione Khan è a terra con un paio di scarpe di flamenco bianche sulle mani. Le suona sul palco, una contro l'altra alternando il loro suono con quello prodotto dalle sue ginocchia e testa. È come se il suono scorresse attraverso il suo corpo e potesse essere creato da qualsiasi cosa egli abbia o sia. Al posto dell'ironia di Galván qui abbiamo una densità profonda del movimento, persino quando Khan si diverte a 'dialogare' con Bobote che gli prende le scarpe di flamenco dalle mani per gettarle nelle quinte e iniziare a suonare las palmas (il battere delle mani del flamenco) provocando Khan. E Khan si siede su di una sedia e danza un assolo da seduto.

A questo punto i cantanti e musicisti si muovono al centro del palco in un ensamble di alta levatura. I cantanti Azurza e Laboutte sono impeccabili durante tutta la coreografia, cantando canzoni da tradizioni differenti come quella italiana e spagnola. In qualche parte sembrano rallentare il ritmo della danza, creando uno sbilanciamento inusuale, ma la loro bravura è ineccepibile per lo sfondo sonoro dei due performer.

L'ultima sezione è un'esplosione di movimento, suono e ritmo con Khan in totale simbiosi con le percussioni di Manjunath grazie alle sue ghungru (campane alle caviglie) che risuonano per tutto il teatro. Il ritmo è un elemento chiave in questo lavoro, un terreno comune per entrambi i danzatori. Da un punto di vista storico è difficile tracciare una via chiara che colleghi flamenco e kathak, ma, secondo alcuni, i gitani lasciarono l'India per viaggiare attraverso il Medio Oriente e l'Europa fino ad arrivare in Spagna. A questo proposito torna alla mente uno splendido documentario, Lacho Drom (1993) di Tony Gatlif dove vi sono pochi dialoghi, poiché il ruolo principale è dato dal ritmo della musica e della danza.

Khan, foto Jean Louis Fernandez.
Come spesso accade scopriamo che ciò o chi avevamo considerato l'Altro da noi è molto più simile a noi di quanto ci immaginavamo, è un animale che ci piace, una persona alla quale ci affezioniamo. In Torobaka vi sono due tipi di gesti che mi sono restati in mente e che si collegano a quanto appena detto, le mani giunte che sia Galván che Khan mostrano in più di un'occasione, puntandole verso il basso, verso il palco/terra dal/la quale così tanto del loro ritmo energetico proviene e i loro abbracci e il toccarsi che dimostra il loro legame artistico. Secondo Galván occorre uccidere il pubblico prima che il pubblico uccida te, questo il suo particolare motto che ci parla dell'elemento violento e aggressivo del flamenco, mentre la danza di Khan è come un'offerta, un dono che si fa al pubblico, come la mucca dona il latte al mondo nella religione induista. Di nuovo il toro e la mucca, la violenza e la pace che in Torobaka si tramutano in un dono così squisito che virtualmente uccide.
  
7 ottobre 2014

giovedì 21 agosto 2014

"The Ancestress figure", mio saggio sulla rivista European Journal of American Culture

I saggi a volte richiedono tempo per essere pubblicati. A volte necessitano di essere riscritti, altre volte non vengono accettati su basi discutibili. A me è successo in diverse occasioni e, se ne avrò la forza (è un mio punto molto debole), tornerò a parlarne. Intato però ci sono saggi che vengono pubblicati, come è accaduto al mio (in inglese) "The Ancestress figure: Puritanism in Martha Graham's choreography", nell'odierno numero della rivista European Journal of American Culture edita da Intellect, qui il link per chi volesse approfondire. Il capitolo 6 del libro (in italiano) Letter to the World: Martha Graham danza Emily Dickisnon edito da Aracne e di prossima pubblicazione, è una versione un po' più aggiornata di questo saggio.

21 agosto 2014

La danza rituale di Martha Graham


LA MARTHA GRAHAM DANCE COMPANY IN ITALIA (TIVOLI)
Villa Adriana, Tivoli (Roma), 25 giugno 2014, ore 21.00

Martha Graham è sempre stata interessata alla danza come rituale e, in qualche modo, si può riassumere il suo lavoro con questo termine evocativo. La sua insegnante, la danzatrice e coreografa Ruth St. Denis, aveva coniato uno stile elegante dagli echi orientalisti, così da trasformare la danza in qualcosa di profondo e significativo. Inoltre fra la fine degli anni Venti e l’inizio degli anni Trenta, Graham si confrontò con il concetto di ‘danza come rituale’ in due occasioni fondamentali: nel ruolo dell’Eletta del Rite of Spring (Sagra della primavera) di Léonide Massine nel 1930, e in qualità di osservatrice curiosa delle culture dei pueblo del sudovest degli Stati Uniti. La prima fu una situazione complicata e, a volte, turbolenta, in quanto Graham spesso discusse con Massine ed ebbe difficoltà ad adattarsi all’estetica della danza classica. La seconda fu di particolare ispirazione e la portò a prendere consapevolezza del rapporto che, tramite la danza, i pueblo avevano con la loro terra, un aspetto che lasciò un segno indelebile nella sua vita. La serata a Villa Adriana a Tivoli ha presentato opere ricche di suggestioni rituali in un ambientazione molto evocativa. Parte del FestivalInternazionale di Villa Adriana, l’evento è stato organizzato in collaborazione con il DanieleCipriani Entertainment. Peccato che la città di Tivoli non sia a misura di turista, soprattutto se non si viaggia in auto.

The Rite of Spring, foto Musacchio&Ianniello.
Janet Eilber, il direttore artistico della compagnia, ha fatto un breve discorso introduttivo, con l’aiuto di una traduttrice. Sul menu vi erano alcune delle migliori coreografie di Graham, la poetica Diversion of Angels (1948), la drammatica Errand, una rielaborazione di Errand into the Maze (1947) da parte di Luca Veggetti, Depak Ine (2014), che Nacho Duato ha specificatamente creato per la compagnia ed infine, ma non da ultimo, The Rite of Spring, coreografia che riprende il capolavoro di Nijinsky del 1913, sempre sulla rivoluzionaria musica di Stravinsky.

Non vedevo la compagnia dal 2010 e la prima cosa che ho notato è stato il cambiamento nel cast. Molte persone nuove sono arrivate e questo la rende più fresca senza che essa perda però il suo status. Allo stesso tempo, la presenza di figure fondamentali come Tadej Brdnik e Blakeley White-McGuire la mantiene in forma splendida. Diversion of Angels è l’inizio ideale per una serata come questa. Si tratta di una delle poche opere in cui Graham non creò una protagonista femminile, è lirico, dinamico e gioioso e dedicato a tre aspetti dell’amore, ognuno danzato da una donna che veste di un colore diverso: giallo per l’amore adolescenziale, rosso per l’amore erotico e bianco per l’amore maturo. Ogni danzatrice ha un partner ed entrambi sono spesso circondati da un gruppo di altre coppie. Eilber ha parlato di un “mondo senza gravità” e di “disegni geometrici” riguardo a questo pezzo ed è vero: la tecnica Graham, così radicata a terra, acquista un sapore più leggero negli animati scambi disegnati dai danzatori. Natasha Diamond-Walker è una raffinata Donna in Bianco e Abdiel Jacobsen danza squisitamente con lei, Mariya Dashkina Maddux è particolarmente adatta al ruolo della Donna in Rosso, fatto di precisione e fluidità. Appena entra sul palco, scivola sul suolo umido (l'aria è frizzante) ma si alza immediatamente ricordando in questo gesto uno dei motti migliori di Graham “i miei danzatori cadono così che si possano rialzare”. Quando esegue la split fall (caduta con spaccata) è come stesse sciogliendosi al suolo in modo seducente per poi rialzarsi nel suo abito rosso fuoco.
The Rite of Spring, foto Musacchio&Ianniello.



Nel 2012 l’uragano Sandy ha causato molti danni alla compagnia, rovinando, per esempio, le sculture che Isamu Noguchi aveva fatto per Errand into the Maze. Questo danno ha portato alla nascita di Errand, una ricreazione della coreografia da parte di Luca Veggetti che ha usufruito dell’aiuto di Miki Orihara, una delle principal dancers. Non vi sono sculture in questa versione, vi sono inoltre dei cambiamenti nella coreografia, nei costumi e nelle luci. È probabilmente il pezzo più emozionante della serata. Blakeley White-McGuire, minuta e dai capelli rossi, è una protagonista superba alla ricerca di un modo per gestire le sue paure, che sono impersonate dalla Creatura della Paura, danzata da Ben Schultz, dal corpo tatuato e scultoreo. La coreografia rielabora il mito di Teaseo e Arianna, laddove il primo viene assorbito dalla seconda che intraprende un viaggio interiore. I cambiamenti apportati da Veggetti sono sottili e significativi: un velo di colore chiaro copre la testa e il volto del danzatore e sostituisce le corna ideate da Noguchi, un bastone trasparente e chic è al posto di quello più artigianale di Noguchi. Tuttavia, l’elemento che colpisce di più è che egli non lascia mai il palco e cammina lungo il suo perimetro quando l’eroina danza i suoi assoli. E quando cammina, toglie il bastone da dietro il collo dove di solito lo tiene mentre danza. La posizione del bastone contribuisce in modo fondamentale a rendere i suoi movimenti rigidi e bidimensionali. Questo cambiamento aggiunge un fattore di tensione misteriosa al ruolo. L’interpretazione di White-McGuire, con le mani sul basso ventre all’inizio del pezzo e la crescita della sua autodeterminazione nel momento in cui combatte contro la Creatura, è davvero profonda. Questa è una coreografia particolarmente ritualistica, sia nella forma che nel contenuto.

Depak Ine, foto Musacchio&Ianniello.



Come lo sono le altre due coreografie che seguono, Depak Ine e The Rite of Spring. Come sottolinea Eilber nell’introduzione, nel creare Depak Ine, Nacho Duato si è ispirato alla teoria evolutiva di Darwin ed ecco perché i danzatori si muovono restando molto a contatto col suolo anche se in maniera più fluida e rilassata rispetto alla tecnica Graham. Ricordano inoltre creature postumane, il risultato, forse, dell’incontro fa umani, animali e tecnologia ( la musica elettronica di John Talbot è un tocco perfetto, a questo proposito). Guardare questo pezzo pieno di rimandi dopo le coreografie di Graham crea uno spostamento nella percezione che si ha delle capacità dei danzatori e delle loro altissime potenzialità tecniche. Sono semplicemente incredibili! Si muovono in gruppi e a coppie con PeiJu Cjien-Pott che giace sul palco prona per un bel po’. Una volta che ci convinciamo che il suo ruolo è quello di fare da contrappunto statico e immobile agli altri, si ‘sveglia’ e ci sbalordisce con una flessibilità che raramente ho visto altrove: lancia le gambe attraverso lo spazio, piegandosi, restando in piedi spezzando il continuum spazio-temporale…nella mia mente è un’incarnazione nuova e vigorosa dell’Eletta, la vittima sacrificale del The Rite of Spring, che chiude la serata.

Quest’ultima opera ha il sapore delle culture di cui sopra dei pueblo del sudovest degli Stati Uniti in quanto uno Sciamano, interpretato da un maestoso Ben Schultz, guida il sacrificio indispensabile per una primavera propizia. Uomini e donne danzano in gruppi separati, il palco non è molto grande e la struttura coreografica del pezzo magnificamente concepita da Graham ne soffre un po’, anche se acquisisce un tocco intimo che prima non aveva. Quando lo Sciamano sceglie la prorpia vittima è un momento drammatico di disperazione e rivelazione: ella si trova sulle spalle delle suo partner dal quale viene quasi subito strappata. Xiaochuan Xie danza un’Eletta belligerante, anche quando viene soggiogata dallo Sciamano. Ritengo che migliorerà ancora di più col tempo e l’esperienza necessaria per questo ruolo.

Il palco è ora vuoto, la gente inizia a muoversi, una bella camminata ci attende per uscire da Villa Adriana, la chiusura migliore per questo intenso rituale. 

21 agosto 2014

venerdì 27 giugno 2014

Martha Graham Dance Company - Tivoli (foto)

Il 25 giugno sono stata a Tivoli al FestiVal Internazionale di Villa Adriana a vedere lo spettacolo della Martha Graham Dance Company, ecco alcune foto, presto la mia recensione.

Arrivo a Villa Adriana al tramonto.
Il programma della serata.
Biglietto e programma.
Poco prima dell'inizio.
Percorrendo Villa Adriana dopo lo spettacolo.



Uno scorcio di Villa Adriana dopo lo spettacolo.

27 giugno 2014

lunedì 26 maggio 2014

La parola alla danza: come è andata?

Che cosa significa entrare in una scuola di danza e parlare di storia della danza? Significa mettere insieme due facce diverse della stessa arte, significa intessere relazioni, significa creare sinergie in un mondo, quello della danza, dove troppi aspetti viaggiano su binari differenti.

Ho iniziato questo progetto l'anno scorso nella scuola di danza di Lara Carelli, Talent's Dance (qui la locandina e qui alcune foto) e l'ho proseguito quest'anno presso Il Balletto di Macerata diretto da Eleonora Iacobucci e situato a Macerata proprio nella zona sotto lo sferisterio, qui il volantino. Si è trattato di fornire alcuni assaggi di quella che è la storia della danza, con tre appuntamenti, ognuno dei quali dedicati ad un tema: un excursus sulla storia della danza dal Rinascimento ai giorni nostri, un'analisi del balletto classico per eccellenza, Giselle, e una panoramica su due forme di danza che si situano fra storia e antropologia, tarantismo e flamenco.

Le domande che ci siamo fatti hanno riguardato il significato della storia della danza e, più in particolare, il rapporto con i documenti e con le coreografie stesse. Il Rinascimento è un periodo fondante in questo senso, perché è il periodo dei trattati di danza che ci permettono di ricostruire il senso che la danza aveva nelle corti di quel tempo. Il Romanticismo ci porta a capire molta della danza di oggi, poiché con le sue linee e geometrie non ci parla solo del balletto e del suo periodo d'oro, ma anche di quello che è oggi la danza classica e di quelle che sono le sue trasformazioni. La danza teatrale poi cede il passo ad altre danze che si sono imposte per la loro forza in stretto rapporto con il territorio dove sono nate. Ecco che quindi il tarantismo e il flamenco possono essere ripensati non tanto come fenomeni folcloristici o sensuali, ma come vere e proprie manifestazioni culturali di alto profilo.

Gli incontri sono andati molto bene, ringrazio Il Balletto di Macerata e tutte le persone che hanno partecipato, soprattutto gli attentissimi bambini che hanno fatto domande divertenti e importanti.

26 maggio 2014

lunedì 28 aprile 2014

Martha Graham

Susanne Franco, MarthaGraham, Palermo, L’Epos, 2003.

http://www.planetacommerce.it/img/libri/lib_B3BWUn.jpg
Gli studi critici su Martha Graham stanno finalmente prendendo il via. Di recente, in lingua inglese, sono stati pubblicati due volumi importanti, Martha Graham in Love and War (2012) di Mark Franko e Martha Graham – Gender & The Haunting of a Dance Pioneer (2013) di Victoria Thoms. A parte questi testi, la maggior parte degli studi su di lei in forma di libro si sono concentrati su di una prospettiva biografica. Un’eccezione è emersa prima di questi due studi che ha contribuito a dare un’impronta diversa a quelli che potremmo (anzi dovremmo)  definire i Graham Studies. Si tratta della monografia critica in italiano di Susanne Franco, pubblicata per la prima volta nel 2003 e ristampata nel 2006. Intitolata semplicemente Martha Graham, analizza l’opera della coreosofa statunitense seguendo dei concetti-chiave come politica, sesso e religione che servono a tracciare dei percorsi critici lungo la fertile produzione grahamiana. Non è un testo semplice per chi è digiuno di studi critici e teorie di genere, ma è un testo importante perché ci mostra Graham secondo una prospettiva critica complessa, senza ridurla sempre e solo a mito inossidabile.

Il testo si apre con un’accurata introduzione a Graham in un contesto, quello della rivoluzione operata da Isadora Duncan e altri esponenti della cosiddetta “danza libera”, caratterizzato da un cambiamento fondamentale nella concezione del corpo in movimento, che non viene più considerato “come un’entità prelinguistica e pre-culturale, ma come l’espressione di convenzioni culturali”. Franco aggiunge che “ogni tecnica di danza non soltanto esprime le relazioni esistenti tra corpo e società, ma anche le opinioni che all’interno di un preciso orizzonte culturale si formano in merito agli scopi di quest’arte”. La tecnica Graham si sviluppa, in questo senso, a partire dal corpo di Graham, dal suo vissuto, dalle sue esperienze, dal suo bisogno di esprimersi in un mondo pieno di forti cambiamenti. È stato il frutto di una costante sperimentazione che, assieme all’insegnamento e alla pratica coreografica, ha poi portato a quella grammatica del corpo che conosciamo oggi. Movimento base è l’alternarsi della contraction-and-release, la contrazione e la distensione del torso in base alle quali le altri parti del corpo poi si muovono. Franco tratta delle figure importanti che hanno contribuito allo sviluppo della coreosofia grahamiana, come Ruth St. Denis, la sua insegnante di danza presso la scuola Denishawn, Louis Horst, il musicista, compositore, mentore e per un periodo anche amante, John Martin, il giornalista critico di danza del New York Times, ed Erick Hawkins, danzatore col quale ebbe una duratura relazione e che poi sposò (a dal quale divorziò). Enumerate sono anche le prime coreografie e i primi capolavori, come Lamentation (1930), Primitive Mysteries (1931) e American Document (1938).

La seconda parte è, principalmente, incentrata sulla politica in riferimento a Graham, fatto questo che può sembrare inappropriato, ma che trova nella sua produzione degli anni Trenta, un’interessante e acceso dibattito sulla danza. È in questo periodo che prende il via un nuovo rapporto fra danza e politica con la New Dance Group, che proponeva un tipo di danza impegnata che riflettesse la difficoltà dei tempi. Fra i suoi membri vi erano anche danzatori della Compagnia di Graham, come Jane Dudley che compose l’assolo Time is Money (1934) danzato sulle parole dell’omonima poesia di Soul Funaroff. Siamo nel decennio che segue la Grande Depressione, decennio permeato dalla paura del comunismo che, nel dopoguerra, con il senatore McCarthy, si tramuterà in una vera e propria caccia alle streghe. Questi danzatori appartenevano alle file della sinistra radicale e intendevano avviare una rivoluzione attraverso la danza, puntando su di uno stile di movimento semplice e su contenuti forti. A sostenere questi propositi vi erano anche delle riviste, come il New Masses che, ad un certo punto, coinvolse direttamente Graham nel dibattito. Graham, infatti, era già divenuta una presenza importante nel panorama della danza del tempo e nei suoi lavori si era spesso concentrata sul rapporto fra individuo e società con uno stile e tecnica fortemente marcati. Per questo fu accusata di eccessivo formalismo e di non abbracciare la causa della sinistra. Graham non intendeva impegnarsi esplicitamente in queste questioni, ma il dibattito la influenzò nella creazione di alcune coreografie, come lo splendido assolo Deep Song (1937), ispirato alla Guerra Civile Spagnola.

La terza parte si occupa della fase successiva della produzione grahamiana, con un accento particolare rivolto ai suoi ritratti femminili, ritratti che assumono man mano un carattere profondamente introspettivo e che si rifanno a figure letterarie, bibliche e mitologiche. È di questo periodo la coreografia Letter to the World (1940), dedicata ad Emily Dickinson, o anche Deaths and Entrances (1943) ispirata alle sorelle Brontë, Herodiade (1944) che riprende una poesia di Mallarmé, Seraphic Dialogue (1955) dedicata a Giovanna D’Arco, Embattled Garden (1958) ispirata ad Adamo ed Eva e così via. Franco sottolinea come “in questa costante tensione tra ribellione ai tradizionali canoni della femminilità e accettazione di un destino che faceva quasi sempre soccombere le eroine davanti al dominio maschile, si è posta (…) gran parte della sua produzione degli anni Quaranta e Cinquanta”. In questo filone si inserisce anche la versione che Graham compone del Rite of Spring (1984), coreografia culto del Novecento creata da Vaslav Nijinsky nel 1913 e reinterpretata da numerosissimi coreografi dopo di lui. Anche in questa visione, Graham pone la sua interpretazione significativa che mette al centro una protagonista femminile lacerata dalla paura e dal tormento.

La quarta parte è dedicata allo spazio della scrittura, spazio troppo spesso ignorato dai critici. Danzatori e coreografi, infatti, spesso lasciano volumi e quaderni di notazioni e appunti che sono uno strumento a volte preziosissimo per capire la loro visione. E Graham eccelse anche in questo con i suoi Notebooks, serie di annotazioni di vario tipo che vennero pubblicate nel 1973. A corredare questa parte vi è un excursus sul rapporto fra danza e altre arti, come la musica, la scenigrafia e i costumi.

La quinta parte è dedicata alla controversa battaglia legale che è scoppiata dopo la sua morte. Designando come unico erede il suo braccio destro degli ultimi anni, Ron Protas, poco esperto della sua tecnica come del suo repertorio, Graham ha di fatto messo a rischio la preservazione del suo lavoro per le generazioni future. Il Martha Graham Center ha però ingaggiato una battaglia dalla quale è uscito quasi del tutto vincitore e la Compagnia è ora in grado di sfoggiare quasi tutti i capolavori creati dalla sua fondatrice. “A chi appartiene la danza?” si chiede Franco. È questa una domanda ancora senza risposte certe e che alcune grandi Compagnie internazionali, come quella di Antonio Gades e di Merce Cunningham, stanno gestendo a modo loro.

Chiude il testo una serie di apparati che includono una breve delineazione della vita di Graham, una sezione iconografica, una ballettografia, una videografia e una bibliografia essenziale.

28 aprile 2014

lunedì 17 febbraio 2014

La parola alla danza - Storia della danza: un assaggio

Rosella Simonari durante l'incontro, foto di Mauro Martella.

Il pubblico presente, foto di Mauro Martella.
Sabato 15 febbraio si è tenuto il priomo dei tre incontro dedicati alla storia e cultura della danza presso la scuola di danza Il Balletto di Macerata. Titolo dle progetto, La parola alla danza: a tu per tu con storia e cultura dell'arte in movimento, qui i dettagli.
L'incontro è andato molto bene, il pubblico presente è stato particolarmente attento ed ha posto domande e riflessioni importanti che hanno arricchito l'incontro. I più piccoli pure sono stati carinissimi. In particolare uno si è più volte prestato a mostrare dei passi di cui parlavo e a fare domande mai scontate.
Il luogo, lo studio di danza della Scuola, ha contribuito in modo fondamentale a creare l'atmosfera calda e rilassante dell'incontro.
Il prossimo appuntamento è per sabato 15 marzo alle ore 18.00 per parlare di Giselle e del balletto romantico.

17 febbraio 2014

sabato 25 gennaio 2014

La parola alla danza


Fra febbraio e marzo presso la sede de Il Balletto di Macerata, vi saranno tre incontri a mia cura sulla storia e cultura della danza.


25 gennaio 2014

giovedì 2 gennaio 2014

Ricordanze


Susanne Franco, Marina Nordera, a cura di, Ricordanze – Memoria in movimento e coreografie della storia (Torino: UTET, 2010). 

La danza vive cibandosi di quella che Susanne Franco e Marina Nordera chiamano l’ambivalente “retorica dell’effimero” che, da un lato, porta a non lasciare tracce dietro di sé e, dall’altro, tende a sfuggire più facilmente a censure e controlli. La danza sembrerebbe dunque relegata alla dimensione dell’oralità e, in questo senso, collegata al concetto di memoria. Ma non è precisamente così che vanno le cose, in quanto la danza lascia delle tracce che possono essere raggruppate e anche catalogate in appositi archivi così che lo storico o la storica possa consultarli e mettere insieme il mosaico affascinante che denominiamo danza. La memoria quindi si relaziona alla storia in un rapporto non sempre felice, ma che può fare di un corpo una sorta di archivio vivente e del racconto storico una narrazione non oggettiva.

Questo testo splendido, importantissimo e ricco raccoglie gli interventi di numerosi studiosi sul tema storia e memoria, tema che viene suddiviso in sei punti di vista differenti: archivio ed esperienza; incorporazione; eredità rappresentate; sulle tracce; oblio, assenza, rimozione; trasmettere.

Il primo indaga la nozione di archivio che Laurent Sebillotte definisce come una “pietrificazione apparente” in quanto l’esperienza dell’archivio, ossia l’analisi delle tracce lasciate dalle performance del passato, può divenire un “atto creativo in sé”. In questa sezione, a parte l’ottimo saggio dello stesso Sebillotte, vi sono quelli di Patrizia Veroli e Marina Nordera, che con specificità proprie, trattano dell’importanza dell’archivio in relazione rispettivamente ad Aurel Milloss e Francine Lancelot.

Il secondo si concentra sul termine di recente formazione, ‘incorporazione’, che “fa del corpo un deposito attivo di memoria a cui attingere”. I saggi di Susan Leigh Foster, Basile Doganis e Annalisa Sacchi propongono riflessioni particolarmente stimolanti, che spaziano dal concetto di ‘simpatia cinestetica’ del giornalista e teorico della danza John Martin, ossia della capacità di un corpo di percepire fisicamente quello che un altro corpo fa, a quello di ‘kata’ (forma o stampo in giapponese) che ha a che fare con delle “sequenze gestuali strutturate” nella tradizione dell’arte marziale.

Il terzo è uno dei più accessibili ed è dedicato alle ‘eredità rappresentate’ il cui significato si interseca con quello di canone, “vale a dire una lista di opere ritenute degne di essere trasmesse perché rappresentative di una certa cultura”. Il canone ha i suoi limiti dato che tende a “cristallizzare nel tempo le opere”. In ambito coreutico è rapportabile a quello di repertorio, ma proprio per questo, si auspicano le curatrici, dovrebbe “essere di volta in volta ristabilito”. Accanto a questo tipo di eredità vi è poi quello occultato, come accade, in alcuni casi, per le danze tradizionali (la pizzica ne è un esempio). I saggi di questa sezione sono particolarmente interessanti e vertono su eredità rappresentate alquanto differenti: Mattia Scarpulla analizza la produzione di Ea Sola fra memoria e archivio evidenziandone le contraddizioni fruttuose, Jacqueline Shea Murphy si occupa della haka maori che incarna un esempio importante di relazione di potere fra bianchi e maori, Susanne Franco presenta due rivisitazioni di un’opera appartenente al canone, Le Jeune Homme et la Mort di Roland Petit fra “diritti d’autore e doveri della memoria”.

Il quarto punto ha un titolo evocativo, “Sulle tracce” e s’incentra sulla questione della ricostruzione e sulla problematizzazione delle fonti, ossia su quel processo di contestualizzazione delle tracce che una coreografia lascia dietro di sé. A questo proposito il saggio di Yvonne Hardt è innovativo nel delineare lo sviluppo dello spettacolo TR_C_NG del 2007, uno spettacolo che coniuga “indagine accademica e produzione artistica”; quello di Peggy Phelan commovente nel mescolare i ricordi personali incentrati su di una persona cara scomparsa e l’Orfeo di Trisha Brown secondo il filo conduttore della morte; infine il saggio di Alessandro Pontremoli è un tripudio di spunti col suo cavalcare gli archivi e le memorie coreutici alla corte quattrocentesca degli Sforza.

Il quinto è forse il più interessante, “Oblio, assenza, rimozione” in quanto porta a riflettere sul concetto di assenza e dimenticanza. L’oblio viene paragonato alla morte in quanto “sembra minare alla base la possibilità stessa della rappresentazione del passato”. D’altro canto però, l’oblio potrebbe anche rappresentare “una strategia di difesa” per rimuovere delle esperienze traumatiche. Il saggio di Mahalia Lassibille indaga lo sguardo dell’etnologo e i rischi di etnocentrismo che esso comporta; quello di Gerald Siegmund si concentra sulla Sagra della primavera di Pina Bausch interpretandolo “come un viaggio nella natura traumatica del movimento”; e quello notevole di Beatriz Martinez del Fresno che narra del ruolo della Sección Femenina della Falange franchista nella “memoria collettiva della danza del dopoguerra”.

Il sesto è intitolato "Trasmettere", concetto chiave nel discorso sulla relazione fra storia e memoria che consta nel passaggio di conoscenze e che ci dice molto su cosa intendiamo per tradizione. Joëlle Vellet parla di “memoria plurale e multiforme” e della trasmissione come di un’avventura “per superare delle prove”; Avanth Meduri ci llustra la “trasmissione della danza sudasiatica a Londra”, un percorso frutto di diverse tappe e trasformazioni a seguito dei camibamenti apportati dalla globalizzazione e non solo; e Jens Giersdorf presenta una riflessione su Patricio Bunster, e sulla “funzione politica della coreografia”.


2 gennaio 2014