sabato 8 dicembre 2018

Adattamento in danza (intro)


La dance adaptation, adattamento in danza, si occupa del 'viaggio' e trasformazione di un testo, di solito letterario, ma può essere anche cinematografico, coreutico ecc., in un altro testo di carattere coreutico. Almeno questa è per ora la definizione che introduco. Cosa accade ad una storia quando cambia il mezzo attraverso il quale viene espressa? Si tratta di una questione complessa che non ha trovato ancora tantissimo riscontro fra gli studiosi. Io me ne occupo da qualche anno e lo trovo un campo particolarmente interessante per come la relazione fra i testi di matrice diversa si esemplifichi in un dialogo fruttuoso per ambo le parti. Nel mio blog in inglese, adancehistory ho pubblicato alcuni brevi saggi di adattamenti in danza. Nel video qui riportato vi è una scena tratta dal balletto Alice Adventures in Wonderland coreografato da Christopher Weeldon e ispirato al celeberrimo omonimo libro di Lewis Carroll. Interessante notare la scelta stilistica di Weeldon di ritrarre il  Cappellaio Matto tramite il tip tap.


8 dicembre 2018

giovedì 29 novembre 2018

Danza e critica: una riflessione

Nel numero di novembre-dicembre 2018 di Danza&Danza, l’editoriale di Maria Luisa Buzzi pone una questione spinosa, quella della critica. “La critica è morta” dice Buzzi tra virgolette, “non ha più ragione di essere”. Queste affermazioni riportano ad un dibattito del 2015, nato nelle pagine del giornale statunitense The Atlantic, ad opera di Madison Mainwaring che analizza la progressiva riduzione dei critici di danza sulle pagine di giornali cartacei come Time Out New York e The San Francisco Chronicle.

Citando il critico di danza del New Yorker, Joan Acocella, Mainwaring sottolinea come “la danza sia stata l’arte meno rispettata (…) sin dal quarto secolo quando la chiesa (…) bandì la danza dalle cerimonie religiose pubbliche” (Acocella in Mainwaring 2015). La danza ha a che fare con la fisicità dei corpi ed è associata alla sessualità e alla femminilità, aspetti che hanno contribuito alla poca attenzione ad essa dedicata.
Mainwaring continua facendo un piccolo excursus storico. John Martin fu nominato critico di danza dal New York Times nel lontano 1927 e i suoi articoli sono stati strumentali per lo sviluppo della modern dance. A questo proposito aggiungerei che nel 1933 il musicista Louis Horst fondò il Dance Observer, un periodico che dedicò molto spazio alla nascente modern dance. Il rapporto fra i critici di allora e coreografi come Martha Graham non era sempre idilliaco, ma era fondato su una sorta di reciprocità, una conversazione fatta attraverso le lenti della scrittura e della pratica artistica. Quando Graham creò la prima versione di Letter to the World nel 1940, Martin la criticò aspramente e non è incauto pensare che Graham modificò di molto la coreografia iniziale anche grazie a quella critica. Inoltre, al quel tempo, i coreografi stessi prendevano la parola e scrivevano articoli sul loro lavoro, aspetto che, secondo la studiosa Gay Morris, “dimostra fino a che punto (…) cercavano di plasmare la ricezione del loro lavoro” (Morris 2006: xix).
Negli anni Sessanta e Settanta, con il “dance boom” e la rivoluzione sessuale, “la percezione della fisicità” (Mainwaring, 2015) mutò e la danza ebbe un’attenzione da parte della stampa che non aveva mai avuto prima. “Scrivere di danza contribuisce alla sua legittimazione” (Mainwaring, 2015), ma farlo non è semplice, occorre sviluppare una particolare sensibilità nell’osservare i corpi in movimento e ‘tradurre’ ciò che si vede in parole scritte. Non esiste un unico modo per farlo e nel corso dei decenni vari metodi sono stati approntati. Brian McCormick, per esempio, ha delineato uno schema suddividendo la struttura di una recensione in ‘descrizione’, ‘analisi formale’, ‘interpretazione’ e ‘giudizio’ (McCormick, 2006), senza che si debba per forza seguire quest’ordine.
"I critici di danza sono delle banche di memoria” (Mainwaring, 2015) di valore inestimabile, ci raccontano quello che hanno visto con i loro occhi, con il loro sguardo consapevole di quello che è il linguaggio della danza e la sua storia. In questo senso, forniscono delle coordinate fondamentali, inserendo la coreografia in questione in un contesto più ampio, come dice Acocella in un suo articolo (Acocella, 1992). La registrazione video è un altro tassello, ma non “cattura” veramente “ciò che accade in situ”. Come studiosa, quando mi trovo davanti ad una coreografia da analizzare, uno dei primi passi che faccio è quello di rintracciare le recensioni dei critici. Interessante è, per esempio, l’analisi che Elena Cervellati fa degli scritti di Théophile Gautier sulla danza. Scrittore prolifico e intellettuale poliedrico, Gautier si occupò anche della stesura dei libretti di danza, il più celebre dei quali è Giselle (1841): “è nella danza che [Gautier] (…) trova l’ambito in cui meglio esercitare le proprie capacità critiche e ideologiche” (Cervellati: 2007, 10). E il suo libretto, assieme ad un suo celebre articolo sul balletto delle villi, è una delle poche fonti rimaste su quella Giselle.
Mainwaring ascrive la ‘morte della critica’ ad una altro fattore importante: il fatto che la cultura di massa ha sorpassato la cultura ‘alta’ per quanto concerne la “discussione critica” (Mainwaring, 2015). Non è chiaro se intenda con questo lo spazio virtuale della rete, laddove chiunque, in teoria, può prendere la parola e scrivere la propria opinione. In questo senso, una risposta al pezzo di Mainwaring è giunta proprio dal web, da parte di Christine Jowers che su Danceusa.org, critica la giornalista del The Atlantic (il cui articolo è comunque pubblicato online!) per non aver preso in considerazione il fenomeno della critica di danza sul web, che consta di numerosi siti fatti di giornalisti preparati e dedicati. Nomina il suo sito, The Dance Enthusiast, come anche ArtBurstMiami e altri, sottolineando come il modo di parlare di danza stia cambiando, “forse il mondo della danza ha bisogno di aprirsi a nuovi modi di pensare, scrivere, sostenere [la danza] e interagire con i danzatori, il pubblico e i mezzi di comunicazione” (Jowers, 2015).
Buzzi nel suo editoriale non fa riferimento alla dicotomia fra critica sul cartaceo e sul web (Danza&Danza si avvale anche di un sito web piuttosto dinamico), ma si concentra sulla delegittimazione del critico e fa anche lei riferimento alla cultura di massa che considera i critici “come entità ‘con la puzza sotto il naso’, lontana dalla gente comune” (Buzzi, 2018: 5). Il critico letterario Northrop Frye, sosteneva che la critica è “una parte essenziale” (Frye, 1990: 3) dell’educazione, della cultura o dello studio delle materie umanistiche. Il critico non è un parassita, il cui lavoro si fonda sul lavoro di qualcun altro. Di parere diverso è Alessandro Piperno, secondo cui “il buon recensore sa di essere un parassita” (Piperno, 2015). Piperno avviò, col suo pezzo, un dibattito proprio sulla presunta morte del critico. Eppure, guardando un’opera d’arte da un punto di vista più ampio, di nuovo, prendendo in esame il contesto in cui viene creata, possiamo notare che chi la crea si ispira ad altri lavori e non per questo viene definito parassitario. Cosa resterebbe della pittura di Picasso senza l’arte definita come africana? Picasso stesso è famoso per una citazione che recita, “i buoni artisti copiano, i grandi artisti rubano”.
Il critico, continua Frye, non è un artista mancato, in quanto anche la critica è una forma d’arte, “una struttura di pensiero e conoscenza che esiste di per se stessa, con una certa indipendenza dall’arte con la quale ha a che fare” (Frye, 1990: 5). Il gusto del pubblico non è qualcosa di ‘naturale’ o innato, ma è frutto di conoscenze più o meno approfondite che il critico contribuisce ad arricchire e, per certi aspetti, a guidare. Il pubblico che sceglie di evitare la critica, insiste Frye, “brutalizza le arti e perde la propria memoria culturale” (Frye, 1990: 4).
Citando A.O.Scott, Buzzi afferma che “idealmente la società non avrebbe bisogno di critici ‘salvo nella misura in cui tutti dovremmo aspirare a diventarlo’ per spostarci dalle nostre zone di confort” (Buzzi, 2018: 5). E internet ha forse contribuito a sviluppare questa aspirazione. Riprendendo Jowers, con internet è cambiato il modo di comunicare e forse anche di fare critica. Ciò non toglie che in molti casi, online e offline, ci si trovi davanti a quelli che Buzzi chiama “pseudo-critici” (Buzzi, 2018: 5), ossia i critici poco preparati. Pochi anni fa, per esempio, quando la Martha Graham Dance Company è venuta in Italia, un servizio televisivo parlò del suo stile di danza facendo riferimento alla danza sulle punte, un’affermazione totalmente priva di fondamento, dato che la tecnica Graham si pratica a piedi nudi e se, nelle coreografie, si indossano delle scarpette (come nel caso di Appalachian Spring) non sono certo scarpette da punta.
Come fare per distinguere i critici dagli pseudo-critici? I primi di solito scrivono per testate specializzate o giornali di tiratura nazionale, ma non sempre è così. La capacità di discernere fra critica di qualità e pseudo-critica è probabilmente una delle questioni che ci dovremmo porre, un compito che il pubblico dovrebbe imparare a gestire. E il critico, dal canto suo, dovrebbe fare la sua parte ‘smascherando’ gli pseudo-critici e fare della danza, non solo un’arte capace di preservare e tramandare la propria memoria, ma anche scevra delle colossali imprecisioni, come quella sopra indicata, che tendono ad impoverirla e a darne un’immagine confusa.

MATERIALE CITATO E NON LINKATO

Maria Luisa Buzzi, "Contro il confort del pensiero di massa: instillare dubbi", Danza&Danza, n. 283, novembre-dicembre 2018, p. 5.

Elena Cervellati, Théophile Gautier e la danza. La rivelazione del corpo nel balletto del XIX secolo (Bologna: CLUEB, 2007).

Northrop Frye, Anatomy of Criticism. Four Essays (London: Penguin, 1990).

Gay Morris, A Game for Dancers. Performing Modernism in the Postwar Years, 1945-1960 (Middletown: Wesleyan University Press, 2006). 


29 novembre 2018