venerdì 6 dicembre 2019

Alberto Spadolini - Galeotto fu il lenzuolo

Marco Travaglini, Alberto Spadolini – Galeotto fuil lenzuolo. Arte, amore e spionaggio nella Parigi Anni Trenta, youcanprint.it, 2019. 


Non è facile scrivere di Alberto Spadolini: il suo archivio comprende documenti eterogenei, come articoli in differenti lingue (fra cui il francese e il fiammingo) e fotografie che non è semplice inserire nel percorso della sua carriera. Marco Travaglini, suo nipote e biografo, ha rinvenuto materiale sullo zio sin dal 1978 e lo ha studiato almeno dal 2004. Grazie a lui la vita di Spadolini è emersa dalle nebbie dell’oblio. Alberto Spadolini – Galeotto fuil lenzuolo. Arte, amore e spionaggio nella Parigi Anni Trenta è l’ultimo libro di Travaglini, un romanzo basato, per la maggior parte, su documenti. Il titolo fa riferimento al debutto di Spadolini come danzatore, avvenuto nel 1932. Non avendo un costume, scelse un lenzuolo che fu notato per l’originalità. In molte fotografie, compreso il raffinato ritratto fattogli da Dora Maar e scelto come copertina del libro, Spadolini indossa diversi tipi di tessuti (sciarpe, mantelli, ecc.) a mo’ di ornamento, forse come ricordo di quel debutto.

Spadolini (1907-1972) è stato un famoso danzatore di music-hall nella Parigi degli anni Trenta e, in seguito, un apprezzato pittore, in Francia e all’estero. Fu anche cantante, attore, decoratore, restauratore e regista.

Travaglini apre il libro citando un altro romanzo dedicato a Spadolini, Il Gioco di Spadò di Augusto Scano, pubblicato nel 2015. Spadolini sta morendo in un ospedale e qualcuno (la Morte? Un amico?) gli chiede se desidera danzare e lo invita a farlo come non ha mai fatto prima. È questa un’introduzione significativa in quanto, come ho avuto modo di sottolineare nel 2007, la danza rappresenta un filo rosso nella carriera di Spadolini, anche dopo che smise di danzare, dato che ritorna costantemente nei suoi quadri.

La narrazione è suddivisa in due filoni principali: uno ambientato nel 2015 e dedicato al personaggio fittizio di Dora, italiana americana che ha un dottorato in arte rinascimentale e alla quale viene assegnato il compito di scrivere un libro sulla danza nella Parigi degli anni Trenta; l’altro incentrato sulla vita di Spadolini che va dagli anni Venti agli anni Settanta. La casa editrice di Dora le chiede di trovare “una chiave, un protagonista, qualcosa o qualcuno che possa diventare il soggetto del libro”. Sorpresa, Dora scopre l’esistenza di una figura sconosciuta che porta il suo stesso cognome, “ Josephine Baker e… Spadolini? Ma è il mio stesso cognome!”. Così ha inizio la sua avventura alla ricerca di Spadolini che la condurrà in Italia e in Francia, in compagnia di un archivista di nome Maurizio.

La vita di Spadolini scorre tra le pagine tramite dei flash-back regolari che spostano l’azione a quando l’artista incontrò Gabriele D’Annunzio e Anton Giulio Bragaglia nell’Italia degli anni Venti, quando divenne famoso danzatore nella Francia degli anni Trenta, quando danzò di fronte a Hitler nel 1940, quando si esibì con Walter Chiari in Italia dopo la Seconda Guerra Mondiale e così via fino agli ultimi anni.

Molti di questi flash-back si distinguono per il loro interesse storico. Per esempio, il collegamento Spadolini-D’Annunzio pone diverse riflessioni. Da un lato lo storico Giordano Bruno Guerri lo considera probabile, ma dall’altro sottolinea il fatto che non ci siano fonti al riguardo. In realtà le fonti ci sono, ma non provengono dal periodo in cui i due si sarebbero conosciuti, ossia gli anni Venti [1], bensì da molto dopo, il 1971, quando Philippe Jullian pubblica la sua biografia sul poeta italiano. Forse Guerri fa riferimento alla mancanza di fonti primarie (appunto più vicine al tempo dell’avvenimento) e non alla presenza di quelle secondarie come è quella di Jullian. Un dibattito sulle fonti ci poterebbe troppo lontano, ma possiamo brevemente ragionare su questa.

Jullian ringrazia Spadolini nella pagina dei ringraziamenti ma non lo nomina nell’episodio che riguarda l’incontro col poeta al Vittoriale. Ci si chiede il perché. Spadolini forse gli chiese esplicitamente di non scrivere il suo nome? E perché lo avrebbe fatto? Jullian non era uno scrittore qualsiasi: nato come illustratore, aveva scritto diversi romanzi per poi dedicarsi alla storia dell’arte e allo studio biografico. Il suo libro sul Simbolismo, Esthètes et Magiciens, aveva contribuito alla sua riscoperta ed era stato tradotto in inglese. Diversi suoi libri, compreso quello su D’Annunzio, sono stati tradotti in italiano. All’incontro fra Spadolini e D’Annunzio dedica un paio di pagine che non rappresentano un aspetto fondamentale della vita di D’Annunzio e neanche una porzione sostanziale del libro: avrebbe potuto semplicemente toglierle, ma non lo fece. In aggiunta, come già specificato dallo stesso Travaglini, questa fonte è stata confermata da Patrick Oger, che conosceva Spadolini bene.

Considerando Jullian da un’altra prospettiva, potremmo guardare a ciò che egli in realtà non dice. Infatti quando ringrazia Spadolini, lo chiama “il celebre ballerino” senza dire nulla sui suoi dipinti. Perché? Mostre sui quadri di Spadolini erano state organizzate sin dagli anni Quaranta, qual è la ragione di questa omissione? Al momento non è chiaro, ma sappiamo che Spadolini teneva molto ai suoi quadri già negli anni Venti, quando studiava arte a Roma.

Uno dei suoi primi dipinti più importanti fu un San Francesco, completato nel 1925. A quel tempo Spadolini non aveva la possibilità di tenere il quadro al sicuro con sé a Roma e lo portò ad Ancona presso la casa dei genitori. Purtroppo suo padre Angelo, che aveva rifiutato di aderire al Partito Fascista, aveva perduto il lavoro e decise di venderlo. Quando lo scoprì, Spadolini si arrabbiò molto. Tentò di rintracciare il dipinto e scoprì che era stato venduto ad una chiesa statunitense di Bradford, New York. Quando andò in tournée negli Stati Uniti, assunse un fotografo per far fare una foto all’opera e questo è tutto ciò che abbiamo oggi di quel quadro. Il suo attaccamento emerge anche dalla decisione di diventare terziario francescano, probabilmente dopo la Seconda Guerra Mondiale. Travaglini dedica una pagina intensa alla devozione dello zio per il santo, citando le sue stesse parole: “Francesco mi ha insegnato a dare per la gioia di dare, a sentirmi felice di quanto possiedo, a considerare i ricchi come i veri poveri perché spesso sono poveri nello spirito e nell’anima”.

Le parole di Spadolini tornano in altre parti del libro, come accade per il suo articolo del 1935, “Impressioni d’America” che Travaglini aveva ripubblicato anche nel suo libro del 2012, Spadò – Il danzatore nudo. Spadolini parla degli Stati Uniti dopo esser tornato da una tournée, “una città americana si mostra come un esempio continuo della velocità umana”. Fa il confronto fra i music-hall parigini e quelli statunitensi, sottolineando la fama della capitale francese, “in generale, quando la produzione mostra l’etichetta francese è alle stelle”. Critica inoltre il razzismo nordamericano, dopo aver invitato l’artista nera Alma Smith a cena con lui ed aver notato l’“indicibile repulsione tanto verso la razza gialla che quella nera”.

Dora e Maurizio scoprono informazioni su Spadolini grazie a questi e a molti altri documenti, commentandoli e formulando domande sulla sua vita. In questo senso, il libro di Travaglini si occupa tanto della figura di Spadolini quanto dell’atto complesso di scrivere un libro su di lui. A tal proposito un altro personaggio emerge tra le pagine, un blogger che pubblica articoli poco attendibili su Spadolini. Il suo lavoro, ispirato ad un libro esistente, Alberto Spadolini – Danzatore, pittore, agente segreto di Ignazio Gori, mostra la grande differenza tra uno studio lungo quattordici (e più) anni, come è il libro di Travaglini, e la prospettiva di Gori, dove i ritrovamenti di Travaglini (a cominciare dallo scatolone del 1978) vengono menzionati senza fare riferimento alla fonte e dove la copertina, che presenta una foto di Spadolini al contrario (cosa dovrebbe pensare la gente che la vede? Che Spadolini danzasse a testa in giù?), già da sola dà l’idea della mancanza di professionalità del testo. Peggio ancora, il libro viene descritto come lo ‘studio’ che restituisce “il giusto peso alla sua [di Spadolini] opera”, dando così vita ad una falsità tra coloro che non sanno nulla né di Spadolini né di Travaglini, un atto molto grave e privo di rispetto. Attraverso il personaggio del blogger, Travaglini mette in discussione e decostruisce il libro di Gori, restituendo al lavoro di ricerca che ha condotto nel corso degli anni e allo zio il rispetto che meritano, “‘Il tuo blogger’- si accalorò Dora - ‘allude a qualcosa, ma quali prove porta?’. ‘Nessuna!’, rispose Maurizio”.



NOTA
[1] Esiste una fonte indiretta del periodo che attesta la presenza di Duilio Cambellotti al Vittoriale. Secondo Pierfranco Andreani, che scrisse una breve introduzione biografica all’interno dell’opuscolo sulla mostra romana di Spadolini del 1967, Spadolini divenne allievo di Cambellotti mentre studiava presso l’Accademia di Belle Arti della capitale. È quindi plausibile supporre che lo accompagnò al Vittoriale.


6 dicembre 2019

lunedì 16 settembre 2019

Presentazione documentario su Spadolini



Martedì 27 agosto 2019, presso la Pinacoteca di Jesi (Ancona), ho moderato la serata di presentazione del documentario Spadò - Il danzatore nudo (2019) di Riccardo De Angelis e Romeo Marconi. Erano presenti i registi e il nipote di Spadolini, Marco Travaglini. Qui la mia recensione al documentario.
La Pinacoteca sta diventando un punto di riferimento per la riscoperta di Spadolini, in quanto grazie alla collaborazione con la stessa, soprattutto nella figura di Simona Cardinali, il 10 novembre 2012 ho organizzato e tenuto la serata celebrativa in onore dell'artista marchigiano, Dalla tela al palco - Vita, pittura e danza di Alberto Spadolini, che consisteva in una lezione spettacolo, in collaborazione con dj Nooz e il danzatore e coreografo Roberto Lori e con le interviste fatte a Marco Travaglini e allo scultore Massimo Ippoliti.
Nel febbraio del 2017 sempre in Pinacoteca i registi del documentario hanno girato la video intervista alla sottoscritta.
Ringrazio dunque la Pinacoteca per la disponibilità e gentilezza.

 16 settembre 2019

Pubblicato il mio saggio su Letter to the World di Martha Graham come adattamento in danza


Lo scorso giugno è stato pubblicato il mio saggio, "Martha Graham's Letter to the World: A dance adaptation of Emily Dickinson" nel Journal of Adaptation in Film & Performance, Vol. 12, ns. 1-2, 1 June 2019, pp. 33-48. Si tratta di un saggio importante in quanto metto a fuoco il lavoro di Graham dal punto di vista dell'adattamento in danza, ossia della conversione in danza della produzione poetica (e non solo) di Dickinson. Faccio anche una breve riflessione sulla nozione stessa di adattamento in danza.

16 settembre 2019

giovedì 20 giugno 2019

Spadò – Il danzatore nudo: un documentario su Alberto Spadolini


                                                      Trailer ufficiale del documentario.

Le soffitte a volte rivelano mondi interi, impolverati e dimenticati. Spadò – Il danzatore nudo inizia in una soffitta con un’atmosfera polverosa e vintage e una sveglia, in quanto questo è un viaggio nel tempo che ci riporta indietro di un secolo: Alberto Spadolini (1907-1972), un giovane marchigiano di Ancona se ne va a vivere a Roma negli anni Venti dove studia pittura per poi partire per la Francia dove diviene un famoso danzatore di music-hall nel 1932.

La riscoperta di Spadolini è iniziata nel 1978 proprio in una soffitta, dove suo nipote, Marco Travaglini, ha trovato una scatola piena di documenti di ogni tipo (fotografie, articoli, poster ecc.) sulla vita dello zio in Francia. Spadolini non parlava del suo ruolo di danzatore e Travaglini è rimasto sorpreso da quello che ha scoperto. Tornato sul materiale nel 2004, ha metodicamente iniziato una ricerca sul passato segreto dello zio. Il documentario evoca un’atmosfera d’altri tempi quando Travaglini parla nella soffitta, “ogni tanto veniva a trovarci questo zio particolarmente misterioso (…) era uno zio molto amato, veniva a trovarci una, due volte l’anno, veniva con un macchinone americano enorme" e portava i regali per i nipoti.

Riccardo De Angeli e Romeo Marconi hanno diretto il primo documentario su questo artista poco conosciuto, in collaborazione con Marco Travaglini, direttore de l’Atelier Spadolini. Spadò era il nomignolo col quale Spadolini veniva chiamato dagli amici e qualche volta dalla stampa. Il titolo fa inoltre riferimento al fatto che spesso egli danzava quasi nudo e non deve essere confuso con il titolo omonimo del libro di Travaglini del 2012. Il documentario è un viaggio affascinante suddiviso in tre piani collegati fra loro: il primo dedicato al materiale su e di Spadolini, il secondo incentrato sulle persone che lo conobbero (i nipoti e un amico) o conoscono il suo lavoro (un giornalista, uno scrittore, uno storico dell’arte, la sottoscritta in qualità di storica della danza ecc.) e il terzo rappresentato dalla musica ispirata a Parigi del Nicoletta Fabbri Quartet, un membro del quale è Stefano Travaglini, fratello di Marco).

Il giornalista e scrittore Alberto Bignami racconta la nascita di Spadolini come figlio illegittimo: sua madre, Ida, lavorava come domestica nella casa di una famiglia aristocratica, ebbe una relazione con il suo padrone, restò incinta e fu per questo licenziata. Stava per lasciare Ancona quando incontrò il ferroviere Angelo Spadolini che si guadagnò la sua fiducia e accolse lei e il suo bambino a casa sua.

Lo scrittore e filosofo Antonio Luccarini parla del giovane Alberto e della sua attitudine per il disegno che lo portò a studiare con l’artista locale Armando Bandinelli. Si spostò poi a Roma per studiare col pittore del Vaticano Giambattista Conti. Nella capitale frequentò il Teatro degli Indipendenti di Anton Giulio Bragaglia dove molti artisti dell’avanguardia si trovavano. Secondo lo storico dell’arte Stefano Papetti, Spadolini “è una figura che certamente (...) merita di essere meglio indagata”. C’è nei suoi quadri un dinamismo che potrebbe derivare dal suo contatto con i pittori futuristi che probabilmente incontrò al Teatro.

Una buona parte del documentario è dedicata alla presunta amicizia fra Spadolini e Gabriele D’Annunzio, della quale Travaglini ha parlato sin dal suo primo libro sullo zio, Bolero-Spadò: Alberto Spadolini, una vita di tutti i colori (2007). Lo storico dell’arte, biografo e illustratore Philippe Jullian ringrazia Spadolini nella pagina dei ringraziamenti del suo libro su D’Annunzio, del 1971, “Spadolini, il celebre ballerino, mi ha raccontato il soggiorno, fatto da giovanissimo, al Vittoriale”. Il Vittoriale degli Italiani è quel complesso di costruzioni promosse da D’Annunzio a Gardone Riviera sul lago di Garda. Lì passò l’ultima parte della sua vita ed è lì che pare abbia conosciuto Spadolini nel 1924. Jullian non nomina esplicitamente Spadolini nel testo, ma quando si legge di un giovane decoratore che diviene amico di D’Annunzio e poi se ne va in Francia, possiamo facilmente ricollegarci a quello che l’autore dice nella pagina dei ringraziamenti. Questo collegamento è stato corroborato da uno degli amici di Spadolini, Patrick Oger che ha confermato a Travaglini che il giovane decoratore del libro è Spadolini. Nel documentario, lo storico e biografo Giordano Bruno Guerri, che ha scritto su D’Annunzio, sottolinea la possibilità di questo incontro anche se le fonti non sono abbastanza consistenti.

Locandina del documentario.
Un altro aspetto della vita di Spadolini che manca di fonti consistenti è il suo possibile ruolo di agente segreto. Lo scrittore e saggista Fabio Filippetti afferma che quando si parla di servizi segreti “è difficile avere informazioni”. Tuttavia, Spadolini era un artista conosciuto e poteva spostarsi in luoghi differenti senza destare sospetti. E la questione interessante è che “lo troviamo (…) in città strategiche in particolare durante la [Seconda] guerra mondiale”. Travaglini spiega il suo punto di vista citando, tra le altre cose, l’amicizia fra Spadolini e Ives Gilden, un appassionato di codici cifrati. È possibile che ulteriore materiale emergerà col tempo.

Il mio compito era di parlare dello Spadolini danzatore. Ero molto nervosa durante l’intervista e non ho detto tutto quello che avrei voluto dire. Definisco Spadolini un danzatore primitivista in quanto danzò in numeri ispirati a quelle culture che al tempo erano considerate primitiviste. Il primitivismo è un concetto complesso, coloniale e controverso e abbraccia vari campi come l’arte e la letteratura. All’inizio del XX secolo ebbe a che fare con il fascino occidentale per le culture altre i cui lavori iniziarono ad essere considerati come arte e ispirarono molte forme artistiche occidentali. Les demoiselles d’Avignon di Pablo Picasso è l’esempio che si fa di solito. Non faccio riferimento a questi aspetti nell’intervista, ma De Angelis e Marconi si sono concentrati su una delle poche performance primtiviste registrate che sono state ritrovate su Spadolini, il suo assolo del 1936 nel film Marinella di Pierre Caron. Spadolini si muove quasi nudo su di un piccolo palco a forma di tamburo, rappresentando forse un rituale di una cultura primitivista e mescolando diverse tecniche di danza come la classica e il flamenco. Spadolini era anche famoso per il suo Bolero su musica di Maurice Ravel che probabilmente presentò nel 1933 e fu notato per l’interpretazione in Gigue su musica di Bach lo stesso anno.

Nel documentario Luccarini sottolinea come Spadolini divenne danzatore “senza conoscenze tecniche” e prima di lui io stessa cito l’articolo di Jenny Josane del 1941 dove Spadolini lo conferma. Però ci sono altre fonti che contraddicono questa ed è molto probabile che studiò danza durante il periodo romano. In aggiunta, a seguito del debutto al Casino de Paris nel 1932, iniziò a prendere lezioni da due insegnanti di balletto, Alexandre Volinine e Blanche D’Alessandri.

Di particolare interesse è la testimonianza di Sergio Sadotti. Conobbe Spadolini negli anni 1957 e 1958 quando l’artista andava a Porto Sant'Elpidio per far visita alla sorella che abitava sotto di lui, “Alberto si imponeva immediatamente per la sua personalità, una grande personalità, eleganza (…). Lo vidi dipingere quadri che poi spediva arrotolati al suo gallerista di Parigi”.

Queste e altre interviste sono interfacciate con bellissime immagini della presenza statuaria di Spadolini e di Parigi. Per esempio scorrono frammenti video dal suo documentario in bianco e nero, Rivage de Paris,del 1950, rivelando monumenti della città come la Tour Eiffel e persone come il suonatore di fisarmonica la cui immagine viene finemente giustapposta a quella del Nicoletta Fabbri Quartet. Una canzone del Quartet è “J’ai deux amours” di Josephine Baker e risale al 1930, una canzone che si addice anche a Spadolini quando recita, “ho due amori, il mio paese e Parigi”.

De Angelis e Marconi hanno fatto un lavoro davvero significativo, a tratti superlativo, anche grazie all’aiuto da parte di Travaglini per l’accesso ai documenti. Spadò – Il danzatore nudo, che è disponibile anche sottotitolato in inglese, è un’opera importante, un altro passo verso una maggiore comprensione dell'enigmatica figura di Spadolini.


20 giugno 2019

domenica 21 aprile 2019

"Non io": Autobiography di Wayne McGregor


Una scena di Autobiography, foto Andrej Uspenski.

“Che cosa significa scrivere la propria storia?” recita il programma di Autobiography (2017) della compagnia di danza contemporanea Company Wayne McGregor. È una questione complessa e danzatori e coreografi hanno risposto a questa domanda in modi diversi. La pioniera della danza moderna, Isadora Duncan, introducendo la sua autobiografia del 1927, sottolineò la difficoltà intrinseca nella scrittura, “mi ci son voluti anni di lotta, duro lavoro, e ricerca per imparare a fare un semplice gesto, e conosco abbastanza l’Arte della scrittura per realizzare che mi ci vorrebbero di nuovo molti anni di sforzo e concentrazione per scrivere una frase semplice e bella”. Più recentemente, il ballerino e coreografo Carlos Acosta ha affrontato la questione autobiografia in modi diversi, che vanno dalla sua coreografia semiautobiografica del 2003, Tocororo, al suo libro del 2008, No Way Home al film sulla sua storia, uscito da poche settimane, Yuli, dove gli elementi autobiografici si intrecciano alla narrazione cinematografica.

McGregor ha optato per un’altra strada, quella della scienza, la tecnologia, il cinetismo fluido e alcuni ‘semi’ del suo passato. La genesi della coreografia, come ci dice David Jays del Guardian, è iniziata con la fascinazione del coreografo per l’intelligenza artificiale e con che ruolo potesse avere nel suo lavoro. Ciò ha portato McGregor a concentrarsi sul suo codice genetico e su come egli lo potesse trasformare in un forma differente. Ha inoltre preso in esame alcuni aspetti della sua vita, “cose di famiglia, fotografie, poesie da me scritte” e le ha mutate in quelli che chiama ‘volumi’, sezioni che vengono assemblate ad ogni performance da un algoritmo creato da Nick Rothwell. In questo modo ogni performance ha una sequenza diversa.

Quella presentata al Teatro Ponchielli di Cremona, sabato 13 aprile, è iniziata con “1 avatar”, dove un danzatore a petto nudo si muove attraverso lo spazio, articolando le braccia su e giù, slanciando una gamba indietro, stendendo le gambe e poi eseguendo un grand plié in seconda. È un assolo intenso che sembra creare un forte contrasto con la struttura geometrica sopra di lui. Ideata da Ben Cullen Williams, ricopre tutto il soffitto del palco ed è fatta di aste di metallo che formano delle piramidi con la punta verso il basso. È una struttura gigantesca che si muoverà giù e poi su durante la performance. Come in “6 sleep”, quando si abbassa drammaticamente fino a quasi toccare il pavimento e ‘costringendo’ i danzatori ad assumere una posizione orizzontale (quella che abbiamo quando dormiamo, ‘sleep’ significa dormire, sonno).

I danzatori sono tutti eccezionali. Ricordo di aver visto un lavoro di McGregor anni fa (probabilmente era il 2008) a Londra. Penso la coreografia fosse Entity (2008). La compagnia allora si chiamava Random Dance e anche a quel tempo era costituita da grandi danzatori. Però, notai una specie di qualità poco morbida e agevole di movimento, qualcosa che scomparve quando vidi il suo Infra (2008) danzato dal Royal Ballet. In Autobiography, i danzatori padroneggiano sia la grammatica della danza classica che quelle di tecniche incentrate sul movimento del torso. Le braccia, per esempio, tagliano lo spazio in numerose direzioni, assumendo la forma di un port de bras del balletto o il dipanarsi e ritrarsi di linee magnetiche e veloci. È un vero piacere guardare questa visione fluida del movimento.

L’altro aspetto che colpisce è il disegno luci magistrale della collaboratrice di lunga data di McGregor, Lucy Carter. In alcuni momenti si può solo dire “Wow!” di fronte a quello che ha elaborato. Come in “19 ageing” quando una danzatrice dai capelli rosa, braccia in seconda, viene avviluppata da una bellissima luce rossa o in “8 nurture” quando delle luci accecanti dal fondo palco vengono ripetutamente accese interrompendo la vista del pubblico.

Autobiography riguarda non riguarda McGregor. Ha a che fare con il suo codice genetico, frammenti della sua vita tramutati in movimento, luci, musica, scenografia, drammaturgia e così via. Uno dei volumi si chiama “13 not I” che significa “13 non io” ed è paradigmatico del suo stile. Non è il suo sé individuale in termini narrativi tradizionali. Nel programma egli parla del corpo come archivio, una nozione che è stata analizzata dagli studiosi di danza da un po’ di tempo. Uno di loro, André Lepecki, l’ha studiata in relazione ad alcuni esempi di rimessa in scena, dicendo che si tratta di “un sistema in grado di trasformare simultaneamente passato, presente e futuro”. E McGregor è in linea con questo concetto, che egli considera “non come un evento nostalgico ma come un’idea di futuro ipotetico. Ogni cellula trasporta in se stessa l’intero piano della nostra vita”.

21 aprile 2019

mercoledì 27 marzo 2019

Lunga vita alle wili: l'impavida Giselle sud africana di Dada Masilo

Teatro Storchi, foto Rosella Simonari.
Il Teatro Storchi di Modena è un teatro di fine Ottocento con una bella facciata simmetrica. È una splendida serata diverse persone si stanno raggruppando per vedere l’adattamento di Giselle (2017) a firma Dada Masilo, un lavoro sul cambiamento delle simmetrie in fatto di relazioni. Il poster della performance mostra Masilo nel ruolo di Giselle mentre esegue uno slancio della gamba in alto con il piede flesso di fronte ad una danzatrice vestita di rosso con un frustino in mano. Lo slancio di Masilo è emblematico della sua versione in quanto esemplifica l’intenzione che ha di concentrarsi sulla cattiveria delle wili, la loro forza e il loro potere fatale.

La storia del balletto Giselle (1841) è la quintessenza della storia romantica di amore e perdita. La contadina Giselle si innamora di Albrecht che le nasconde di essere un nobile e di essere promesso ad un’altra nobile. Quando Giselle scopre la verità grazie a Hilarion, anche lui innamorato di lei, diviene pazza in un’epica scena drammatica e muore per rinascere poi sotto forma di wili, uno spirito notturno destinato a uccidere coloro che entrano nel suo regno nella foresta. Tuttavia, Gielle ama Albrecht e decide di salvarlo dalla morte nel momento in cui egli si avventura nella foresta per pregare alla sua tomba.

La Giselle di Masilo è la risultante di numerosi cambiamenti. In primo luogo, la sua Giselle non è così fragile e timida come quella classica. Un esempio è quando rifiuta decisa i fiori di Hilarion (Tshepo Zasekhaya). In secondo luogo, vi è lo stile secondo il quale la coreografia è organizzata: contemporaneo, mescolato al classico e africano. È un mix esplosivo di energia che dà forma a frasi di gruppo vibranti, Masilo al suo meglio, duetti lirici, soprattutto fra Giselle e Albrecht (un meraviglioso Lwando Dutyulwa) e assoli penetranti. In terzo luogo vi è la svolta fondamentale nella storia che avviene nella seconda parte: la vendetta di Giselle contro Albrecht.

Poster Giselle, foto Rosella Simonari.
Masilo lavora sui personaggi e la struttura narrativa reagendo alla società odierna, alla sua ingiustizia, violenza e discriminazione. Da qui la decisione di ambientare il lavoro in Sud Africa ispirandosi ad aspetti della sua cultura e tradizione. Il ruolo di Myrtha, la regina delle wili, è efficace e rivelatore, in questo senso. Danzato in modo potente da un danzatore, Llewellyn Mnguni, vestito come le altre wili, Myrtha è un Sangoma, ossia un guaritore sud africano, il che dà una sfumatura sacra al ruolo. Mnguni ha i capelli in lunghe treccine chiare e tiene in mano un frustino provvisto di capelli, una sorta di scopetta, che viene utilizzata nelle cerimonie e che entra in una dinamica visiva con i suoi capelli spesso agitati in aria. I suoi movimenti sono curvi e densi con il fondoschiena fuori asse. Altri elementi sud africani includono l’inno funebre cantato dopo la morte di Giselle alla fine del primo atto: “va in cielo cuore mio, perché non c’è pace su questa terra”, che viene sottolineato da una lenta processione dei membri della sua comunità.

L’elemento queer è inoltre presente nel gruppo delle wili che includono anche degli uomini. Masilo ha già parlato di omosessualità nel suo Swan Lake (2010), ma qui è come se la questione fosse inserita sottotraccia in una sorta di affermazione implicita che la rende discreta e consistente allo stesso tempo. Maschile, femminile, nessuno dei due, entrambi, come ognuno voglia...la fluidità del genere sembra essere un possibile risposta.

Dada Masilo e le altre wili in Giselle, foto Stella Olivier.
Per quanto riguarda il tema della vendetta, Masilo ha spinto la “narrazione originale”, enfatizzando il carattere “cattivo, pericoloso” delle wili. Un’anticipazione cromatica emerge nella scelta di un rosso profondo al posto del bianco fantasma per il costume delle wili e di Myrtha, “volevo che le wili sembrassero come inzuppate di sangue”, afferma Masilo, ricordando il collegamento che a volte viene fatto fra wili e vampiri. Disegnati da Songezo Mcilizeli e Nonofo Olekeng, i costumi sono costituiti da un top senza maniche con dei motivi, un’ampia gonna sotto al ginocchio e corti strati di tulle cuciti dietro. Questo contrasta con il verde vitreo delle luci di Suzette le Sueur che viene proiettato assieme alle wili.

Quando Albrecht giunge in questo luogo perturbante, danza brevemente con Giselle che è vestita di rosso, ma il tono è differente rispetto ai pas de deux che hanno interpretato prima. In questo caso Giselle è arrabbiata e lo spinge via. È l’inizio della fine, Albrecht danza con tre wili un bellissimo pas de quatre dove le wili rimangono insieme ed egli resta separato da loro, stando davanti o dietro. Presto comincia a soffrire di attacchi acuti, viene circondato dalle wili fino a quando Giselle non lo uccide con una lunga frusta. Il corpo giace senza vita, mentre le wili si muovono da destra a sinistra (Albrecht è sulla sinistra) lanciando una polvere bianca in aria. Giselle è l’ultima, le luci si abbassano, sul palco resta il defunto Albrecht. La vendetta è stata pienamente realizzata e una giustizia perversa fornita a tutte quelle donne che sono state offese dagli uomini. La sovente percussiva musica di Philip Miller e i disegni ispirati alla natura e a volte proiettati sullo sfondo di William Kentridge, completano la coreografia che porta a riflettere profondamente in termini di stile, interpreti e narrazione.



27 marzo 2019

giovedì 21 marzo 2019

Dentro il gesto della natura - Celeste di Raffaella Giordano


Raffaella Giordano in CELESTE appunti per natura, foto di Andrea Macchia.
Il braccio si muove rotondo, il passo è cadenzato, l’abito una superficie turchese, gialla e blu. Queste alcune delle istantanee che rimangono in mente (e nel corpo) dopo aver visto CELESTE appunti per natura, l’assolo di e con Raffaella Giordano, co-direttrice della compagnia di danza contemporanea Sosta Palmizi.

Sosta Palmizi è una delle compagnie storiche di danza contemporanea in Italia. Ha esordito con Il Cortile nel 1985 e, come sottolinea Ambra Senatore, è emersa quale “fenomeno di svolta” nella storia della danza italiana. CELESTE appunti per natura lancia un lazo immaginario a Il Cortile in quanto si avvale delle composizioni dello stesso musicista, Arturo Annecchino.

Creata nel 2017, la coreografia è stata riproposta domenica 17 marzo, quale ultimo spettacolo della rassegna “Invito di Sosta" (XI Edizione) che si è tenuta al Teatro Mecenate di Arezzo da Ottobre 2018 a Marzo 2019. Una “chiusura di apertura”, ha sottolineato Giorgio Rossi, co-direttore di Sosta Palmizi assieme a Giordano. L’auspicio riguarda l'intenzione di organizzare una nuova rassegna per l’autunno, ma anche e soprattutto l’assolo stesso che rappresenta l’apertura verso un ricco microcosmo di passi, gesti e immagini. Per esempio, quando Giordano si inginocchia e posa mani e testa sul palco, o quando si mette il tronco di legno provvisto di due fori (uno dei tre oggetti in scena) dietro al collo, rimandando forse alle torture medievali della gogna, è un solo attimo, ma davvero struggente. 

E poi c’è il silenzio, i gradi di silenzio alternati alle musiche e suoni (questi a cura di Lorenzo Brusci). Giordano dà spesso le spalle al pubblico e si copre il viso con le mani, fino a quando non indossa una maschera fatta di carta, un semplice foglio di carta con tre fori, due per gli occhi e uno per la bocca. Come spiega nella conversazione dopo la performance, ha lavorato molto sull’invisibile, sul senso del ritrarsi per lasciare spazio ad altro: il gesto, il ritmo pacato, il corpo in movimento, l’attraversamento dello spazio.

CELESTE appunti per natura si ispira in parte ad un libro insolito, L’estate della collina (1969) di J.A. Baker, scrittore semisconosciuto che vi “racconta e descrive unicamente la natura”. Giordano riprende l’intenzione dell’autore di rimuovere se stesso dal testo per far emergere proprio la natura. Il gesto reiterato di coprirsi il volto della coreografa danzatrice appare curioso e intimo allo stesso tempo. E nell’oggi intemperante di facebook (il libro dei visi, potremmo dire), questo gesto assume densità e si fa proposta di sguardo altro, di attenzione verso i dettagli e verso identità incarnate dove il viso è una componente fra le tante, non la direttiva social.

E infine, ma non da ultimo, l’abito, il movimento dell’abito e dentro all’abito. Dipinto da Gianmaria Sposito, ha uno scollo rotondo, maniche lunghe leggermente a sbuffo e una gonna a campana con degli spacchi laterali. Riluce, si comprime e si espande nel percorso coreografico, dialoga con i piedi nudi di Giordano e sottolinea la posizione delle mani, spesso giunte o riverse sulla stoffa. È un microcosmo nel microcosmo, anch’esso un “servizio all’azione”, la “cura” che Giordano dedica al suo lavoro.


21 marzo 2019

martedì 19 marzo 2019

Black Flags di William Forsythe e l'elefante nella stanza


Black Flags è una grande installazione che William Forsythe ha creato nel 2014 per uno dei suoi progetti denominati Choreographic Objects. Forsythe ha rivoluzionato il linguaggio della danza sin dalla fine degli anni Ottanta, con il suo stile radicale e decostruttivo nei confronti del balletto. Nel 2005 ha spinto la sua creatività ancora più oltre facendosi domande come, “è possibile per la coreografia generare autonome espressioni dei suoi principi, un oggetto coreografico, senza il corpo?” (Forsythe, senza data). Il risultato sono stati i Choreographic Objects, una serie di installazioni impegnative che potevano distinguersi per grandezza, materiale e struttura.


Black Flags è uno di questi, è gigante ed è fatto di due bracci robotici che tengono e muovono due bandiere nere. Il tessuto scuro e grande di ogni bandiera si muove a volte in unisono con l’altra, altre volte secondo una direzione o angolo differenti, “c’è una distribuzione di forze davvero unica” dice Forsythe, lodando la “bellezza e precisione” (Forsythe, 2017) di questi oggetti. Il rumore dei robot in azione è l’unica ‘musica’ del pezzo.

Non ho visto questa installazione dal vivo, ma ho sentito un senso profondo di spaesamento perturbante guardando il video della performance e ho iniziato a pensare al perché. La prima cosa che mi è venuta in mente sono gli sbandieratori italiani, artisti che muovono le bandiere in varie direzioni e in aria in composizioni acrobatiche. Non è chiara la loro origine, ma oggigiorno ci sono numerosi spettacoli di ispirazione medievale che includono l’esibizione degli sbandieratori il cui lavoro può essere certamente visto come un tipo di coreografia. Qui un paio di esempi, il primo è una registrazione dal vivo degli sbandieratori di Lanciano, il secondo è un ritratto video degli sbandieratori di Acquapendente:



Guardando le bandiere di Forsythe e gli sbandieratori si può notare l’inquietante (Forsythe stesso usa il termine ‘inquietare’, vedi Forsythe, 2017) calma delle prime e il brio dei secondi, c’è una connessione nell’abile manipolazione delle bandiere, ma una netta differenza nella dinamica.

Lo spaesamento continua, c’è qualcosa fuori posto in questa installazione, ma ancora non so cosa sia. Poi arriva la seconda associazione, è con la bandiera anarchica, che era di colore nero verso la fine dell’Ottocento e inizio del Novecento. Resa popolare da Louise Michel in Francia negli anni Ottanta del 1800, la ritroviamo poi in altri paesi come gli Stati Uniti (afaq, 2008). Secondo Howard Ehrlich, il colore nero fu scelto per l’associazione a vari elementi:

Il nero è la sfumatura della negazione. La bandiera nera è la negazione di tutte le bandiere. È la negazione della nazionalità che mette la razza umana contro se stessa e nega l’unità dell’umanità. Il nero è uno stato d’animo di rabbia e sdegno (…). Il nero è anche il colore del lutto. (…) Il nero è anche bello. È il colore della determinazione, risolutezza, forza, un colore attraverso il quale tutti gli altri vengono chiariti e definiti. Il nero è la zona misteriosa della germinazione, fertilità, il terreno dove si alleva di nuovo la vita che si evolve sempre, si rinnova, si ricarica e riproduce se stessa nell’oscurità” (Ehrlich, citato in afaq, 2008).

Ci sto arrivando. Questo senso di spaesamento è collegato all’idea di nazione/gruppo che la bandiera incorpora. E penso alle bandiere statunitensi piantate sulla Luna nel 1969 o, andando indietro, alla bandiera nel quadro di Eugène Delacroix, La Libertà che guida il popolo (1830), dove l’allegoria della forma femminile (Warner, 1985) rappresenta l’ideale di Libertà e guida un gruppo di persone attraverso la guerra (più specificatamente si tratta della Rivoluzione di Luglio del 1830). La stessa bandiera tricolore diventerà poi la bandiera nazionale francese.

Forsythe, parlando di Black Flags, afferma che hanno lavorato duramente “per de-antropomorfizzare questi robot nelle loro azioni e abbiamo fatto tutto il possibile per rimuovere l’idea di dominio, sottomissione o scopo anche se si inserisce furtivamente dentro” (Forsythe, 2017). Non penso di essere d’accordo con questa idea. Le bandiere sono simboli molto sovraccarichi e connessi alla storia umana, la politica, la cultura e vari altri campi (c’è anche una disciplina che si occupa del loro studio, si chiama Vexillologia, dal latino ‘vexillum’, bandiera) e portano con sé segni di dominio e sottomissione. Scegliere delle bandiere per un’installazione senza entrare in relazione con questi segni significa perpetrarli in qualche modo. George Balanchine, per esempio, ha coreografato due balletti dedicati alle bandiere, Stars and Stripes (1958), per la bandiera statunitense e Union Jack (1976), per quella inglese, scegliendo un tono celebrativo e “tratti patriottici” (Balanchine Trust, nessuna data).

Trinket di William Pope.L, un’installazione del 2008 dove una gigantesca bandiera viene fatta sventolare da grossi ventilatori industriali e viene illuminata da diverse luci, è piuttosto differente in questo senso. Sembra una bandiera degli Stati Uniti ma non lo è in quanto Pope.L ha aggiunto una stella, che è un piccolo dettaglio in grado di scompaginarne l’aspetto simbolico. In modo simile, il titolo, che significa ‘ninnolo’ e, in questo caso, fa riferimento ad una spilla (magari a forma di bandiera), si pone in forte contrasto con la maestosità del simbolo della bandiera, “quando si parla di cose grandi, usate parole piccole” dice (Pope.L, 2015).


Christopher Knight riassume il lavoro come segue:
La promessa di uguaglianza del simbolismo della bandiera si comprende facilmente, ma ciò che rende la scultura grande è la sua profondità stratificata. Più difficile da rappresentare è il simbolo del potere, la cui fonte è controintuitiva: il simbolo è dinamico perché la sua promessa di uguaglianza non è stata mantenuta” (Knight, 2015).

Secondo Pope.L la bandiera “è uno spazio di disaccordo e accordo” e questo condensa il discorso articolato sul simbolismo della bandiera, soprattutto per l’uso del termine ‘spazio’, che rimanda alla radice geopolitica di molti conflitti.

Un altro artista, Robert Longo, ha creato nel 2014 una grande scultura di legno, acciaio e cera che ricorda una porzione di bandiera statunitense, a parte il fatto che è nera e costruita come se fosse una “nave che affonda” (Longo, 2016). La posizione eretta (quasi fallica) di una bandiera che sventola dalla sua asta viene decostruita e riplasmata secondo una diagonale minacciosa. Intitolata Untitled (Pequod) evoca la nave di Achab in Moby Dick (1851) di Herman Melville, una nave che alla fine naufraga come naufraga l’ossessione di Achab per la balena bianca. “Moby Dick è come il codice genetico dell’America” dice Longo, in quanto l’equipaggio è fatto di persone che vengono da culture differenti ma che sono guidate dai bianchi. E Achab “ha questa incredibile arroganza che è molto simile all’arroganza americana di oggi” (Longo, 2016).

Robert Longo, Untitled (Pequod).

Sia Pope.L che Longo affrontano il simbolismo delle bandiere, Forsythe non lo fa. Questa è probabilmente la causa del mio spaesamento, sento che manca qualcosa di importante. Ho apprezzato la scelta di Forsythe di due bandiere così che il movimento non abbia un punto focale ma due. Tuttavia questo si collega all’immagine antropomorfa delle braccia, anche se i robot sono situati sul pavimento e non attaccati ad un oggetto unico. Penso inoltre che il movimento del tessuto nell’aria sia particolarmente interessante, con i tre elementi di questa installazione che interagiscono fra loro: uno è dato dai robot, il secondo dalle bandiere e “l’aria è il terzo giocatore invisibile, si deve praticamente coreografare l’aria e le bandiere” (Forsythe, 2017). Questo aspetto mi ha ricordato due performance: la Danza serpentina (1891) di Loïe Fuller e l’assolo di Martha Graham “Specter 1914” tratto da Chronicle (1936). Fuller utilizzò metri di stoffa cuciti assieme a due bacchette che vennero utilizzate per estendere la lunghezza delle braccia e amplificare il volume del tessuto in movimento. Il suo corpo scompariva e veniva sostituito da curve e spirali plasmate dal costume. Qui un esempio danzato non da Fuller ma da una delle sue rivali e filmato dai fratelli Lumière:
 

L’assolo di Graham è meno ritmato nella manipolazione della stoffa. Il costume è fatto di un top attillato nero con le maniche lunghe e di una gonna molto lunga aperta dietro. Ad un certo punto, la danzatrice inizia a muovere la gonna dal basso verso l’alto, rivelando il colore interno che è rosso (un’altra versione della bandiera anarchica era rossa e nera). Ripete questo gesto diverse volte e, come nel caso di Fuller, la sua figura sembra venir riplasmata dal tessuto in movimento. Qui l’assolo danzato da Katherine Crockett, che è stata principal dancer della Martha Graham Dance Company:


Bandiere, enormi bandiere, bandiere in movimento, bandiere che eseguono una coreografia, bandiere come simboli controversi. Black Flags fa riflettere, è un’affascinante manifestazione di elementi coreografici, con una questione assente, un’affermazione (di qualsiasi tipo) sul simbolismo della bandiera, che considero come l’elefante nella stanza (espressione di matrice anglofona usata per parlare di una questione molto evidente che però viene evitata). Come ha scritto il poeta John Agard nella sua poesia “Bandiera”:

Cos’è che sventola nella brezza?
È solo un pezzo di stoffa
che mette una nazione in ginocchio (Agard, 2004).



REFERENCES

afag,"Appendix - The Symbols of Anarchy", in Anarchist Writers, 11 Ottobre 2008, http://anarchism.pageabode.com/afaq/append2.html (consultato 16 marzo 2019).

John Agard, “Flag”, in Half-Caste and Other Poems (London: Hodder Children’s Books, 2004), consultato in The Poetry Archive, https://www.poetryarchive.org/poem/flag (consultato 16 marzo 2019).

The George Balanchine Trust, “Stars and Stripes”, balanchine.com, nessuna data, http://balanchine.com/stars-and-stripes/ (consultato 16 marzo 2019).

William Forsythe, “Choreographic Objects – Essay”, nessuna data, williamforsythe.com, https://www.williamforsythe.com/essay.html (consultato 15 marzo 2019).

William Forsythe, “William Forsythe: Choreographic Objects”, Gagosian, 23 Ottobre 2017, youtube video, https://www.youtube.com/watch?v=WgQYc5xJc5w (consultato 16 marzo 2019).

Christopher Knight, “William Pope.L sets the U.S. flag waving at the MOCA/Geffen”, Los Angeles Times, 24 marzo 2015, https://www.latimes.com/entertainment/arts/la-et-cm-pope-l-moca-review-20150324-column.html (consultato 15 marzo 2019).

Robert Longo, “I Will Strike the Sun”, Out of Sync – Art in Focus, 18 maggio 2016, youtube video, https://www.youtube.com/watch?v=n-jZFOAw46I (consultato 15 marzo 2019).

William Pope.L, “William Pope.L: Trinket”, MOCA, 15 aprile 2015, youtube video, https://www.youtube.com/watch?v=h5wdIAtO4pU (consultato 15 marzo 2019).

Marina Warner, Monuments and Maidens – The Allegory of the Female Form (London: Picador, 1985). 


19 marzo 2019