Marco Travaglini, Alberto Spadolini – Galeotto fuil lenzuolo. Arte, amore e spionaggio nella Parigi Anni Trenta, youcanprint.it, 2019.
Non è facile scrivere di Alberto Spadolini: il suo archivio
comprende documenti eterogenei, come articoli in differenti lingue
(fra cui il francese e il fiammingo) e fotografie che non è semplice
inserire nel percorso della sua carriera. Marco Travaglini, suo
nipote e biografo, ha rinvenuto materiale sullo zio sin dal 1978 e lo
ha studiato almeno dal 2004. Grazie a lui la vita di Spadolini è
emersa dalle nebbie dell’oblio. Alberto Spadolini – Galeotto fuil lenzuolo. Arte, amore e spionaggio nella Parigi Anni Trenta è
l’ultimo libro di Travaglini, un romanzo basato, per la maggior
parte, su documenti. Il titolo fa riferimento al debutto di Spadolini
come danzatore, avvenuto nel 1932. Non avendo un costume, scelse un
lenzuolo che fu notato per l’originalità. In molte fotografie,
compreso il raffinato ritratto fattogli da Dora Maar e scelto come
copertina del libro, Spadolini indossa diversi tipi di tessuti
(sciarpe, mantelli, ecc.) a mo’ di ornamento, forse come ricordo di
quel debutto.
Spadolini (1907-1972) è stato un famoso danzatore di music-hall
nella Parigi degli anni Trenta e, in seguito, un apprezzato pittore,
in Francia e all’estero. Fu anche cantante, attore, decoratore, restauratore e regista.
Travaglini apre il libro citando un altro romanzo dedicato a
Spadolini, Il Gioco di Spadò di Augusto Scano, pubblicato nel 2015.
Spadolini sta morendo in un ospedale e qualcuno (la Morte? Un amico?)
gli chiede se desidera danzare e lo invita a farlo come non ha mai
fatto prima. È questa un’introduzione significativa in quanto,
come ho avuto modo di sottolineare nel 2007, la danza rappresenta un
filo rosso nella carriera di Spadolini, anche dopo che smise di
danzare, dato che ritorna costantemente nei suoi quadri.
La narrazione è suddivisa in due filoni principali: uno
ambientato nel 2015 e dedicato al personaggio fittizio di Dora,
italiana americana che ha un dottorato in arte rinascimentale e alla
quale viene assegnato il compito di scrivere un libro sulla danza
nella Parigi degli anni Trenta; l’altro incentrato sulla vita di
Spadolini che va dagli anni Venti agli anni Settanta. La casa
editrice di Dora le chiede di trovare “una chiave, un protagonista,
qualcosa o qualcuno che possa diventare il soggetto del libro”.
Sorpresa, Dora scopre l’esistenza di una figura sconosciuta che
porta il suo stesso cognome, “ Josephine Baker e… Spadolini? Ma è
il mio stesso cognome!”. Così ha inizio la sua avventura alla
ricerca di Spadolini che la condurrà in Italia e in Francia, in
compagnia di un archivista di nome Maurizio.
La vita di Spadolini scorre tra le pagine tramite dei flash-back
regolari che spostano l’azione a quando l’artista incontrò
Gabriele D’Annunzio e Anton Giulio Bragaglia nell’Italia degli
anni Venti, quando divenne famoso danzatore nella Francia degli anni
Trenta, quando danzò di fronte a Hitler nel 1940, quando si esibì con Walter Chiari in Italia
dopo la Seconda Guerra Mondiale e così
via fino agli ultimi anni.
Molti di questi flash-back si distinguono per il loro interesse
storico. Per esempio, il collegamento Spadolini-D’Annunzio pone
diverse riflessioni. Da un lato lo storico Giordano Bruno Guerri lo
considera probabile, ma dall’altro sottolinea il fatto che non ci
siano fonti al riguardo. In realtà le fonti ci sono, ma non
provengono dal periodo in cui i due si sarebbero conosciuti, ossia
gli anni Venti [1], bensì da molto dopo, il 1971, quando Philippe
Jullian pubblica la sua biografia sul poeta italiano. Forse Guerri fa
riferimento alla mancanza di fonti primarie (appunto più vicine al
tempo dell’avvenimento) e non alla presenza di quelle secondarie come è quella di Jullian. Un dibattito sulle fonti ci poterebbe troppo lontano, ma
possiamo brevemente ragionare su questa.
Jullian ringrazia Spadolini nella pagina dei ringraziamenti ma non
lo nomina nell’episodio che riguarda l’incontro col poeta al
Vittoriale. Ci si chiede il perché. Spadolini forse gli chiese
esplicitamente di non scrivere il suo nome? E perché lo avrebbe
fatto? Jullian non era uno scrittore qualsiasi: nato come
illustratore, aveva scritto diversi romanzi per poi dedicarsi alla
storia dell’arte e allo studio biografico. Il suo libro sul
Simbolismo, Esthètes et Magiciens, aveva contribuito alla
sua riscoperta ed era stato tradotto in inglese. Diversi suoi libri,
compreso quello su D’Annunzio, sono stati tradotti in italiano.
All’incontro fra Spadolini e D’Annunzio dedica un paio di pagine
che non rappresentano un aspetto fondamentale della vita di
D’Annunzio e neanche una porzione sostanziale del libro: avrebbe
potuto semplicemente toglierle, ma non lo fece. In aggiunta, come già
specificato dallo stesso Travaglini, questa fonte è stata confermata
da Patrick Oger, che conosceva Spadolini bene.
Considerando Jullian da un’altra prospettiva, potremmo guardare
a ciò che egli in realtà non dice. Infatti quando ringrazia
Spadolini, lo chiama “il celebre ballerino” senza dire nulla sui
suoi dipinti. Perché? Mostre sui quadri di
Spadolini erano state organizzate sin dagli anni Quaranta, qual è
la ragione di questa omissione? Al momento non è chiaro, ma sappiamo
che Spadolini teneva molto ai suoi quadri già negli anni Venti,
quando studiava arte a Roma.
Uno dei suoi primi dipinti più importanti fu un San Francesco,
completato nel 1925. A quel tempo Spadolini non aveva la possibilità
di tenere il quadro al sicuro con sé a Roma e lo portò ad Ancona
presso la casa dei genitori. Purtroppo suo padre Angelo, che aveva
rifiutato di aderire al Partito Fascista, aveva perduto il lavoro e
decise di venderlo. Quando lo scoprì, Spadolini si arrabbiò molto.
Tentò di rintracciare il dipinto e scoprì che era stato venduto ad
una chiesa statunitense di Bradford, New York. Quando andò in
tournée negli Stati Uniti, assunse un fotografo per far fare una
foto all’opera e questo è tutto ciò che abbiamo oggi di quel
quadro. Il suo attaccamento emerge anche dalla decisione di diventare
terziario francescano, probabilmente dopo la Seconda Guerra Mondiale.
Travaglini dedica una pagina intensa alla devozione dello zio per il
santo, citando le sue stesse parole: “Francesco mi ha insegnato a
dare per la gioia di dare, a sentirmi felice di quanto possiedo, a
considerare i ricchi come i veri poveri perché spesso sono poveri
nello spirito e nell’anima”.
Le parole di Spadolini tornano in altre parti del
libro, come accade per il suo articolo del 1935, “Impressioni
d’America” che Travaglini aveva ripubblicato anche nel suo libro
del 2012, Spadò – Il danzatore nudo. Spadolini parla degli Stati
Uniti dopo esser tornato da una tournée, “una città americana si
mostra come un esempio continuo della velocità umana”. Fa il
confronto fra i music-hall parigini e quelli statunitensi,
sottolineando la fama della capitale francese, “in generale, quando
la produzione mostra l’etichetta francese è alle stelle”.
Critica inoltre il razzismo nordamericano, dopo aver invitato
l’artista nera Alma Smith a cena con lui ed aver notato
l’“indicibile repulsione tanto verso la razza gialla che quella
nera”.
Dora e Maurizio scoprono informazioni su Spadolini grazie a questi
e a molti altri documenti, commentandoli e formulando domande sulla sua
vita. In questo senso, il libro di Travaglini si occupa tanto della
figura di Spadolini quanto dell’atto complesso di scrivere un libro
su di lui. A tal proposito un altro personaggio emerge tra le pagine,
un blogger che pubblica articoli poco attendibili su Spadolini. Il
suo lavoro, ispirato ad un libro esistente, Alberto Spadolini –
Danzatore, pittore, agente segreto di Ignazio Gori, mostra la grande
differenza tra uno studio lungo quattordici (e più) anni, come è
il libro di Travaglini, e la prospettiva di
Gori, dove i ritrovamenti di Travaglini (a cominciare dallo scatolone
del 1978) vengono menzionati senza fare riferimento alla fonte e dove
la copertina, che presenta una foto di Spadolini al contrario (cosa
dovrebbe pensare la gente che la vede? Che Spadolini danzasse a testa
in giù?), già da sola dà l’idea della mancanza di professionalità del testo. Peggio
ancora, il libro viene descritto come lo ‘studio’ che restituisce
“il giusto peso alla sua [di Spadolini] opera”, dando così vita
ad una falsità tra coloro che non sanno nulla né di
Spadolini né di Travaglini, un atto molto grave e privo di rispetto. Attraverso il personaggio del blogger,
Travaglini mette in discussione e decostruisce il libro di Gori,
restituendo al lavoro di ricerca che ha condotto nel corso degli anni e allo zio il rispetto che
meritano, “‘Il tuo blogger’- si accalorò Dora - ‘allude a
qualcosa, ma quali prove porta?’. ‘Nessuna!’, rispose
Maurizio”.
NOTA
[1] Esiste una fonte indiretta del periodo che attesta la presenza
di Duilio Cambellotti al Vittoriale. Secondo Pierfranco Andreani, che
scrisse una breve introduzione biografica all’interno dell’opuscolo
sulla mostra romana di Spadolini del 1967, Spadolini divenne allievo
di Cambellotti mentre studiava presso l’Accademia di Belle Arti
della capitale. È quindi plausibile supporre che lo accompagnò al
Vittoriale.
6 dicembre 2019
venerdì 6 dicembre 2019
lunedì 16 settembre 2019
Presentazione documentario su Spadolini
Martedì 27 agosto 2019, presso la Pinacoteca di Jesi (Ancona), ho moderato la serata di presentazione del documentario Spadò - Il danzatore nudo (2019) di Riccardo De Angelis e Romeo Marconi. Erano presenti i registi e il nipote di Spadolini, Marco Travaglini. Qui la mia recensione al documentario.
La Pinacoteca sta diventando un punto di riferimento per la riscoperta di Spadolini, in quanto grazie alla collaborazione con la stessa, soprattutto nella figura di Simona Cardinali, il 10 novembre 2012 ho organizzato e tenuto la serata celebrativa in onore dell'artista marchigiano, Dalla tela al palco - Vita, pittura e danza di Alberto Spadolini, che consisteva in una lezione spettacolo, in collaborazione con dj Nooz e il danzatore e coreografo Roberto Lori e con le interviste fatte a Marco Travaglini e allo scultore Massimo Ippoliti.
Nel febbraio del 2017 sempre in Pinacoteca i registi del documentario hanno girato la video intervista alla sottoscritta.
Ringrazio dunque la Pinacoteca per la disponibilità e gentilezza.
16 settembre 2019
Pubblicato il mio saggio su Letter to the World di Martha Graham come adattamento in danza
Lo scorso giugno è stato pubblicato il mio saggio, "Martha Graham's Letter to the World: A dance adaptation of Emily Dickinson" nel Journal of Adaptation in Film & Performance, Vol. 12, ns. 1-2, 1 June 2019, pp. 33-48. Si tratta di un saggio importante in quanto metto a fuoco il lavoro di Graham dal punto di vista dell'adattamento in danza, ossia della conversione in danza della produzione poetica (e non solo) di Dickinson. Faccio anche una breve riflessione sulla nozione stessa di adattamento in danza.
16 settembre 2019
giovedì 20 giugno 2019
Spadò – Il danzatore nudo: un documentario su Alberto Spadolini
Trailer ufficiale del documentario.
La riscoperta di Spadolini è iniziata nel 1978 proprio in una soffitta, dove suo nipote, Marco Travaglini, ha trovato una scatola piena di documenti di ogni tipo (fotografie, articoli, poster ecc.) sulla vita dello zio in Francia. Spadolini non parlava del suo ruolo di danzatore e Travaglini è rimasto sorpreso da quello che ha scoperto. Tornato sul materiale nel 2004, ha metodicamente iniziato una ricerca sul passato segreto dello zio. Il documentario evoca un’atmosfera d’altri tempi quando Travaglini parla nella soffitta, “ogni tanto veniva a trovarci questo zio particolarmente misterioso (…) era uno zio molto amato, veniva a trovarci una, due volte l’anno, veniva con un macchinone americano enorme" e portava i regali per i nipoti.
Riccardo De Angeli e Romeo Marconi hanno diretto il primo documentario su questo artista poco conosciuto, in collaborazione con Marco Travaglini, direttore de l’Atelier Spadolini. Spadò era il nomignolo col quale Spadolini veniva chiamato dagli amici e qualche volta dalla stampa. Il titolo fa inoltre riferimento al fatto che spesso egli danzava quasi nudo e non deve essere confuso con il titolo omonimo del libro di Travaglini del 2012. Il documentario è un viaggio affascinante suddiviso in tre piani collegati fra loro: il primo dedicato al materiale su e di Spadolini, il secondo incentrato sulle persone che lo conobbero (i nipoti e un amico) o conoscono il suo lavoro (un giornalista, uno scrittore, uno storico dell’arte, la sottoscritta in qualità di storica della danza ecc.) e il terzo rappresentato dalla musica ispirata a Parigi del Nicoletta Fabbri Quartet, un membro del quale è Stefano Travaglini, fratello di Marco).
Il giornalista e scrittore Alberto Bignami racconta la nascita di Spadolini come figlio illegittimo: sua madre, Ida, lavorava come domestica nella casa di una famiglia aristocratica, ebbe una relazione con il suo padrone, restò incinta e fu per questo licenziata. Stava per lasciare Ancona quando incontrò il ferroviere Angelo Spadolini che si guadagnò la sua fiducia e accolse lei e il suo bambino a casa sua.
Lo scrittore e filosofo Antonio Luccarini parla del giovane Alberto e della sua attitudine per il disegno che lo portò a studiare con l’artista locale Armando Bandinelli. Si spostò poi a Roma per studiare col pittore del Vaticano Giambattista Conti. Nella capitale frequentò il Teatro degli Indipendenti di Anton Giulio Bragaglia dove molti artisti dell’avanguardia si trovavano. Secondo lo storico dell’arte Stefano Papetti, Spadolini “è una figura che certamente (...) merita di essere meglio indagata”. C’è nei suoi quadri un dinamismo che potrebbe derivare dal suo contatto con i pittori futuristi che probabilmente incontrò al Teatro.
Una buona parte del documentario è dedicata alla presunta amicizia fra Spadolini e Gabriele D’Annunzio, della quale Travaglini ha parlato sin dal suo primo libro sullo zio, Bolero-Spadò: Alberto Spadolini, una vita di tutti i colori (2007). Lo storico dell’arte, biografo e illustratore Philippe Jullian ringrazia Spadolini nella pagina dei ringraziamenti del suo libro su D’Annunzio, del 1971, “Spadolini, il celebre ballerino, mi ha raccontato il soggiorno, fatto da giovanissimo, al Vittoriale”. Il Vittoriale degli Italiani è quel complesso di costruzioni promosse da D’Annunzio a Gardone Riviera sul lago di Garda. Lì passò l’ultima parte della sua vita ed è lì che pare abbia conosciuto Spadolini nel 1924. Jullian non nomina esplicitamente Spadolini nel testo, ma quando si legge di un giovane decoratore che diviene amico di D’Annunzio e poi se ne va in Francia, possiamo facilmente ricollegarci a quello che l’autore dice nella pagina dei ringraziamenti. Questo collegamento è stato corroborato da uno degli amici di Spadolini, Patrick Oger che ha confermato a Travaglini che il giovane decoratore del libro è Spadolini. Nel documentario, lo storico e biografo Giordano Bruno Guerri, che ha scritto su D’Annunzio, sottolinea la possibilità di questo incontro anche se le fonti non sono abbastanza consistenti.
Locandina del documentario. |
Il mio compito era di parlare dello Spadolini danzatore. Ero molto nervosa durante l’intervista e non ho detto tutto quello che avrei voluto dire. Definisco Spadolini un danzatore primitivista in quanto danzò in numeri ispirati a quelle culture che al tempo erano considerate primitiviste. Il primitivismo è un concetto complesso, coloniale e controverso e abbraccia vari campi come l’arte e la letteratura. All’inizio del XX secolo ebbe a che fare con il fascino occidentale per le culture altre i cui lavori iniziarono ad essere considerati come arte e ispirarono molte forme artistiche occidentali. Les demoiselles d’Avignon di Pablo Picasso è l’esempio che si fa di solito. Non faccio riferimento a questi aspetti nell’intervista, ma De Angelis e Marconi si sono concentrati su una delle poche performance primtiviste registrate che sono state ritrovate su Spadolini, il suo assolo del 1936 nel film Marinella di Pierre Caron. Spadolini si muove quasi nudo su di un piccolo palco a forma di tamburo, rappresentando forse un rituale di una cultura primitivista e mescolando diverse tecniche di danza come la classica e il flamenco. Spadolini era anche famoso per il suo Bolero su musica di Maurice Ravel che probabilmente presentò nel 1933 e fu notato per l’interpretazione in Gigue su musica di Bach lo stesso anno.
Nel documentario Luccarini sottolinea come Spadolini divenne danzatore “senza conoscenze tecniche” e prima di lui io stessa cito l’articolo di Jenny Josane del 1941 dove Spadolini lo conferma. Però ci sono altre fonti che contraddicono questa ed è molto probabile che studiò danza durante il periodo romano. In aggiunta, a seguito del debutto al Casino de Paris nel 1932, iniziò a prendere lezioni da due insegnanti di balletto, Alexandre Volinine e Blanche D’Alessandri.
Di particolare interesse è la testimonianza di Sergio Sadotti. Conobbe Spadolini negli anni 1957 e 1958 quando l’artista andava a Porto Sant'Elpidio per far visita alla sorella che abitava sotto di lui, “Alberto si imponeva immediatamente per la sua personalità, una grande personalità, eleganza (…). Lo vidi dipingere quadri che poi spediva arrotolati al suo gallerista di Parigi”.
Queste e altre interviste sono interfacciate con bellissime immagini della presenza statuaria di Spadolini e di Parigi. Per esempio scorrono frammenti video dal suo documentario in bianco e nero, Rivage de Paris,del 1950, rivelando monumenti della città come la Tour Eiffel e persone come il suonatore di fisarmonica la cui immagine viene finemente giustapposta a quella del Nicoletta Fabbri Quartet. Una canzone del Quartet è “J’ai deux amours” di Josephine Baker e risale al 1930, una canzone che si addice anche a Spadolini quando recita, “ho due amori, il mio paese e Parigi”.
De Angelis e Marconi hanno fatto un lavoro davvero significativo, a tratti superlativo, anche grazie all’aiuto da parte di Travaglini per l’accesso ai documenti. Spadò – Il danzatore nudo, che è disponibile anche sottotitolato in inglese, è un’opera importante, un altro passo verso una maggiore comprensione dell'enigmatica figura di Spadolini.
20 giugno 2019
domenica 21 aprile 2019
"Non io": Autobiography di Wayne McGregor
Una scena di Autobiography, foto Andrej Uspenski. |
McGregor ha optato per un’altra strada, quella della scienza, la tecnologia, il cinetismo fluido e alcuni ‘semi’ del suo passato. La genesi della coreografia, come ci dice David Jays del Guardian, è iniziata con la fascinazione del coreografo per l’intelligenza artificiale e con che ruolo potesse avere nel suo lavoro. Ciò ha portato McGregor a concentrarsi sul suo codice genetico e su come egli lo potesse trasformare in un forma differente. Ha inoltre preso in esame alcuni aspetti della sua vita, “cose di famiglia, fotografie, poesie da me scritte” e le ha mutate in quelli che chiama ‘volumi’, sezioni che vengono assemblate ad ogni performance da un algoritmo creato da Nick Rothwell. In questo modo ogni performance ha una sequenza diversa.
Quella presentata al Teatro Ponchielli di Cremona, sabato 13 aprile, è iniziata con “1 avatar”, dove un danzatore a petto nudo si muove attraverso lo spazio, articolando le braccia su e giù, slanciando una gamba indietro, stendendo le gambe e poi eseguendo un grand plié in seconda. È un assolo intenso che sembra creare un forte contrasto con la struttura geometrica sopra di lui. Ideata da Ben Cullen Williams, ricopre tutto il soffitto del palco ed è fatta di aste di metallo che formano delle piramidi con la punta verso il basso. È una struttura gigantesca che si muoverà giù e poi su durante la performance. Come in “6 sleep”, quando si abbassa drammaticamente fino a quasi toccare il pavimento e ‘costringendo’ i danzatori ad assumere una posizione orizzontale (quella che abbiamo quando dormiamo, ‘sleep’ significa dormire, sonno).
I danzatori sono tutti eccezionali. Ricordo di aver visto un lavoro di McGregor anni fa (probabilmente era il 2008) a Londra. Penso la coreografia fosse Entity (2008). La compagnia allora si chiamava Random Dance e anche a quel tempo era costituita da grandi danzatori. Però, notai una specie di qualità poco morbida e agevole di movimento, qualcosa che scomparve quando vidi il suo Infra (2008) danzato dal Royal Ballet. In Autobiography, i danzatori padroneggiano sia la grammatica della danza classica che quelle di tecniche incentrate sul movimento del torso. Le braccia, per esempio, tagliano lo spazio in numerose direzioni, assumendo la forma di un port de bras del balletto o il dipanarsi e ritrarsi di linee magnetiche e veloci. È un vero piacere guardare questa visione fluida del movimento.
L’altro aspetto che colpisce è il disegno luci magistrale della collaboratrice di lunga data di McGregor, Lucy Carter. In alcuni momenti si può solo dire “Wow!” di fronte a quello che ha elaborato. Come in “19 ageing” quando una danzatrice dai capelli rosa, braccia in seconda, viene avviluppata da una bellissima luce rossa o in “8 nurture” quando delle luci accecanti dal fondo palco vengono ripetutamente accese interrompendo la vista del pubblico.
Autobiography riguarda non riguarda McGregor. Ha a che fare con il suo codice genetico, frammenti della sua vita tramutati in movimento, luci, musica, scenografia, drammaturgia e così via. Uno dei volumi si chiama “13 not I” che significa “13 non io” ed è paradigmatico del suo stile. Non è il suo sé individuale in termini narrativi tradizionali. Nel programma egli parla del corpo come archivio, una nozione che è stata analizzata dagli studiosi di danza da un po’ di tempo. Uno di loro, André Lepecki, l’ha studiata in relazione ad alcuni esempi di rimessa in scena, dicendo che si tratta di “un sistema in grado di trasformare simultaneamente passato, presente e futuro”. E McGregor è in linea con questo concetto, che egli considera “non come un evento nostalgico ma come un’idea di futuro ipotetico. Ogni cellula trasporta in se stessa l’intero piano della nostra vita”.
21 aprile 2019
mercoledì 27 marzo 2019
Lunga vita alle wili: l'impavida Giselle sud africana di Dada Masilo
Teatro Storchi, foto Rosella Simonari. |
La storia del balletto Giselle (1841) è la quintessenza della storia romantica di amore e perdita. La contadina Giselle si innamora di Albrecht che le nasconde di essere un nobile e di essere promesso ad un’altra nobile. Quando Giselle scopre la verità grazie a Hilarion, anche lui innamorato di lei, diviene pazza in un’epica scena drammatica e muore per rinascere poi sotto forma di wili, uno spirito notturno destinato a uccidere coloro che entrano nel suo regno nella foresta. Tuttavia, Gielle ama Albrecht e decide di salvarlo dalla morte nel momento in cui egli si avventura nella foresta per pregare alla sua tomba.
La Giselle di Masilo è la risultante di numerosi cambiamenti. In primo luogo, la sua Giselle non è così fragile e timida come quella classica. Un esempio è quando rifiuta decisa i fiori di Hilarion (Tshepo Zasekhaya). In secondo luogo, vi è lo stile secondo il quale la coreografia è organizzata: contemporaneo, mescolato al classico e africano. È un mix esplosivo di energia che dà forma a frasi di gruppo vibranti, Masilo al suo meglio, duetti lirici, soprattutto fra Giselle e Albrecht (un meraviglioso Lwando Dutyulwa) e assoli penetranti. In terzo luogo vi è la svolta fondamentale nella storia che avviene nella seconda parte: la vendetta di Giselle contro Albrecht.
Poster Giselle, foto Rosella Simonari. |
L’elemento queer è inoltre presente nel gruppo delle wili che includono anche degli uomini. Masilo ha già parlato di omosessualità nel suo Swan Lake (2010), ma qui è come se la questione fosse inserita sottotraccia in una sorta di affermazione implicita che la rende discreta e consistente allo stesso tempo. Maschile, femminile, nessuno dei due, entrambi, come ognuno voglia...la fluidità del genere sembra essere un possibile risposta.
Dada Masilo e le altre wili in Giselle, foto Stella Olivier. |
Quando Albrecht giunge in questo luogo perturbante, danza brevemente con Giselle che è vestita di rosso, ma il tono è differente rispetto ai pas de deux che hanno interpretato prima. In questo caso Giselle è arrabbiata e lo spinge via. È l’inizio della fine, Albrecht danza con tre wili un bellissimo pas de quatre dove le wili rimangono insieme ed egli resta separato da loro, stando davanti o dietro. Presto comincia a soffrire di attacchi acuti, viene circondato dalle wili fino a quando Giselle non lo uccide con una lunga frusta. Il corpo giace senza vita, mentre le wili si muovono da destra a sinistra (Albrecht è sulla sinistra) lanciando una polvere bianca in aria. Giselle è l’ultima, le luci si abbassano, sul palco resta il defunto Albrecht. La vendetta è stata pienamente realizzata e una giustizia perversa fornita a tutte quelle donne che sono state offese dagli uomini. La sovente percussiva musica di Philip Miller e i disegni ispirati alla natura e a volte proiettati sullo sfondo di William Kentridge, completano la coreografia che porta a riflettere profondamente in termini di stile, interpreti e narrazione.
27 marzo 2019
giovedì 21 marzo 2019
Dentro il gesto della natura - Celeste di Raffaella Giordano
Raffaella Giordano in CELESTE appunti per natura, foto di Andrea Macchia. |
Sosta Palmizi è una delle compagnie storiche di danza contemporanea in Italia. Ha esordito con Il Cortile nel 1985 e, come sottolinea Ambra Senatore, è emersa quale “fenomeno di svolta” nella storia della danza italiana. CELESTE appunti per natura lancia un lazo immaginario a Il Cortile in quanto si avvale delle composizioni dello stesso musicista, Arturo Annecchino.
Creata nel 2017, la coreografia è stata riproposta domenica 17 marzo, quale ultimo spettacolo della rassegna “Invito di Sosta" (XI Edizione) che si è tenuta al Teatro Mecenate di Arezzo da Ottobre 2018 a Marzo 2019. Una “chiusura di apertura”, ha sottolineato Giorgio Rossi, co-direttore di Sosta Palmizi assieme a Giordano. L’auspicio riguarda l'intenzione di organizzare una nuova rassegna per l’autunno, ma anche e soprattutto l’assolo stesso che rappresenta l’apertura verso un ricco microcosmo di passi, gesti e immagini. Per esempio, quando Giordano si inginocchia e posa mani e testa sul palco, o quando si mette il tronco di legno provvisto di due fori (uno dei tre oggetti in scena) dietro al collo, rimandando forse alle torture medievali della gogna, è un solo attimo, ma davvero struggente.
E poi c’è il silenzio, i gradi di silenzio alternati alle musiche e suoni (questi a cura di Lorenzo Brusci). Giordano dà spesso le spalle al pubblico e si copre il viso con le mani, fino a quando non indossa una maschera fatta di carta, un semplice foglio di carta con tre fori, due per gli occhi e uno per la bocca. Come spiega nella conversazione dopo la performance, ha lavorato molto sull’invisibile, sul senso del ritrarsi per lasciare spazio ad altro: il gesto, il ritmo pacato, il corpo in movimento, l’attraversamento dello spazio.
CELESTE appunti per natura si ispira in parte ad un libro insolito, L’estate della collina (1969) di J.A. Baker, scrittore semisconosciuto che vi “racconta e descrive unicamente la natura”. Giordano riprende l’intenzione dell’autore di rimuovere se stesso dal testo per far emergere proprio la natura. Il gesto reiterato di coprirsi il volto della coreografa danzatrice appare curioso e intimo allo stesso tempo. E nell’oggi intemperante di facebook (il libro dei visi, potremmo dire), questo gesto assume densità e si fa proposta di sguardo altro, di attenzione verso i dettagli e verso identità incarnate dove il viso è una componente fra le tante, non la direttiva social.
E infine, ma non da ultimo, l’abito, il movimento dell’abito e dentro all’abito. Dipinto da Gianmaria Sposito, ha uno scollo rotondo, maniche lunghe leggermente a sbuffo e una gonna a campana con degli spacchi laterali. Riluce, si comprime e si espande nel percorso coreografico, dialoga con i piedi nudi di Giordano e sottolinea la posizione delle mani, spesso giunte o riverse sulla stoffa. È un microcosmo nel microcosmo, anch’esso un “servizio all’azione”, la “cura” che Giordano dedica al suo lavoro.
21 marzo 2019
martedì 19 marzo 2019
Black Flags di William Forsythe e l'elefante nella stanza
Black Flags è una grande installazione che William Forsythe ha creato nel 2014 per uno dei suoi progetti denominati Choreographic Objects. Forsythe ha rivoluzionato il linguaggio della danza sin dalla fine degli anni Ottanta, con il suo stile radicale e decostruttivo nei confronti del balletto. Nel 2005 ha spinto la sua creatività ancora più oltre facendosi domande come, “è possibile per la coreografia generare autonome espressioni dei suoi principi, un oggetto coreografico, senza il corpo?” (Forsythe, senza data). Il risultato sono stati i Choreographic Objects, una serie di installazioni impegnative che potevano distinguersi per grandezza, materiale e struttura.
Black Flags è uno di questi, è gigante ed è fatto di due bracci robotici che tengono e muovono due bandiere nere. Il tessuto scuro e grande di ogni bandiera si muove a volte in unisono con l’altra, altre volte secondo una direzione o angolo differenti, “c’è una distribuzione di forze davvero unica” dice Forsythe, lodando la “bellezza e precisione” (Forsythe, 2017) di questi oggetti. Il rumore dei robot in azione è l’unica ‘musica’ del pezzo.
Non
ho visto questa installazione dal vivo, ma ho sentito un senso
profondo di spaesamento perturbante guardando il video della
performance e ho iniziato a pensare al perché. La prima cosa che mi
è venuta in mente sono gli sbandieratori italiani, artisti che
muovono le bandiere in varie direzioni e in aria in
composizioni acrobatiche. Non è chiara la loro origine, ma
oggigiorno ci sono numerosi spettacoli di ispirazione medievale che
includono l’esibizione degli sbandieratori il cui lavoro può
essere certamente visto come un tipo di coreografia. Qui un paio di
esempi, il primo è una registrazione dal vivo degli sbandieratori di
Lanciano, il secondo è un ritratto video degli sbandieratori di
Acquapendente:
Guardando
le bandiere di Forsythe e gli sbandieratori si può notare
l’inquietante (Forsythe stesso usa il termine ‘inquietare’,
vedi Forsythe, 2017) calma delle prime e il brio dei secondi, c’è
una connessione nell’abile manipolazione delle bandiere, ma una
netta differenza nella dinamica.
Lo
spaesamento continua, c’è qualcosa fuori posto in questa
installazione, ma ancora non so cosa sia. Poi arriva la seconda
associazione, è con la bandiera anarchica, che era di colore nero verso la
fine dell’Ottocento e inizio del Novecento. Resa popolare da Louise
Michel in Francia negli anni Ottanta del 1800, la ritroviamo poi in
altri paesi come gli Stati Uniti (afaq, 2008). Secondo Howard Ehrlich,
il colore nero fu scelto per l’associazione a vari elementi:
“Il
nero è la sfumatura della negazione. La bandiera nera è la
negazione di tutte le bandiere. È la negazione della nazionalità
che mette la razza umana contro se stessa e nega l’unità
dell’umanità. Il nero è uno stato d’animo di rabbia e sdegno
(…). Il nero è anche il colore del lutto. (…) Il nero è anche
bello. È il colore della determinazione, risolutezza, forza, un
colore attraverso il quale tutti gli altri vengono chiariti e
definiti. Il nero è la zona misteriosa della germinazione,
fertilità, il terreno dove si alleva di nuovo la vita che si evolve
sempre, si rinnova, si ricarica e riproduce se stessa nell’oscurità”
(Ehrlich, citato in afaq, 2008).
Ci
sto arrivando. Questo senso di spaesamento è collegato all’idea
di nazione/gruppo che la bandiera incorpora. E penso alle bandiere
statunitensi piantate sulla Luna nel 1969 o, andando indietro, alla
bandiera nel quadro di Eugène Delacroix, La Libertà che guida il
popolo (1830), dove l’allegoria della forma femminile (Warner,
1985) rappresenta l’ideale di Libertà e guida un gruppo di persone
attraverso la guerra (più specificatamente si tratta della
Rivoluzione di Luglio del 1830). La stessa bandiera tricolore diventerà poi la bandiera nazionale francese.
Forsythe,
parlando di Black Flags, afferma che hanno lavorato duramente “per
de-antropomorfizzare questi robot nelle loro azioni e abbiamo fatto
tutto il possibile per rimuovere l’idea di dominio, sottomissione o
scopo anche se si inserisce furtivamente dentro” (Forsythe, 2017).
Non penso di essere d’accordo con questa idea. Le bandiere sono
simboli molto sovraccarichi e connessi alla storia umana, la
politica, la cultura e vari altri campi (c’è anche una disciplina
che si occupa del loro studio, si chiama Vexillologia, dal latino
‘vexillum’, bandiera) e portano con sé segni di dominio e
sottomissione. Scegliere delle bandiere per un’installazione senza
entrare in relazione con questi segni significa perpetrarli in
qualche modo. George Balanchine, per esempio, ha coreografato due
balletti dedicati alle bandiere, Stars and Stripes (1958), per la
bandiera statunitense e Union Jack (1976), per quella inglese,
scegliendo un tono celebrativo e “tratti patriottici” (Balanchine
Trust, nessuna data).
Trinket
di William Pope.L, un’installazione del 2008 dove una gigantesca
bandiera viene fatta sventolare da grossi ventilatori industriali e
viene illuminata da diverse luci, è piuttosto differente in questo
senso. Sembra una bandiera degli Stati Uniti ma non lo è in quanto
Pope.L ha aggiunto una stella, che è un piccolo dettaglio in grado
di scompaginarne l’aspetto simbolico. In modo simile, il titolo,
che significa ‘ninnolo’ e, in questo caso, fa riferimento ad una
spilla (magari a forma di bandiera), si pone in forte contrasto con la
maestosità del simbolo della bandiera, “quando si parla di cose
grandi, usate parole piccole” dice (Pope.L, 2015).
Christopher
Knight riassume il lavoro come segue:
“La
promessa di uguaglianza del simbolismo della bandiera si comprende
facilmente, ma ciò che rende la scultura grande è la sua profondità
stratificata. Più difficile da rappresentare è il simbolo del
potere, la cui fonte è controintuitiva: il simbolo è dinamico
perché la sua promessa di uguaglianza non è stata mantenuta”
(Knight, 2015).
Secondo
Pope.L la bandiera “è uno spazio di disaccordo e accordo” e
questo condensa il discorso articolato sul simbolismo della
bandiera, soprattutto per l’uso del termine ‘spazio’, che
rimanda alla radice geopolitica di molti conflitti.
Un
altro artista, Robert Longo, ha creato nel 2014 una grande scultura
di legno, acciaio e cera che ricorda una porzione di bandiera
statunitense, a parte il fatto che è nera e costruita come se fosse
una “nave che affonda” (Longo, 2016). La posizione eretta (quasi
fallica) di una bandiera che sventola dalla sua asta viene
decostruita e riplasmata secondo una diagonale minacciosa. Intitolata
Untitled (Pequod) evoca la nave di Achab in Moby Dick (1851) di
Herman Melville, una nave che alla fine naufraga come naufraga
l’ossessione di Achab per la balena bianca. “Moby Dick è come il
codice genetico dell’America” dice Longo, in quanto l’equipaggio
è fatto di persone che vengono da culture differenti ma che sono
guidate dai bianchi. E Achab “ha questa incredibile arroganza che è
molto simile all’arroganza americana di oggi” (Longo, 2016).
Robert Longo, Untitled (Pequod). |
Sia
Pope.L che Longo affrontano il simbolismo delle bandiere, Forsythe
non lo fa. Questa è probabilmente la causa del mio spaesamento,
sento che manca qualcosa di importante. Ho apprezzato la scelta di
Forsythe di due bandiere così che il movimento non abbia un punto
focale ma due. Tuttavia questo si collega all’immagine antropomorfa
delle braccia, anche se i robot sono situati sul pavimento e non
attaccati ad un oggetto unico. Penso inoltre che il movimento del
tessuto nell’aria sia particolarmente interessante, con i tre
elementi di questa installazione che interagiscono fra loro: uno è
dato dai robot, il secondo dalle bandiere e “l’aria è il terzo
giocatore invisibile, si deve praticamente coreografare l’aria e le
bandiere” (Forsythe, 2017). Questo aspetto mi ha ricordato due
performance: la
Danza serpentina (1891) di Loïe Fuller e l’assolo di Martha Graham
“Specter 1914” tratto da Chronicle (1936). Fuller utilizzò metri
di stoffa cuciti assieme a due bacchette che vennero utilizzate per
estendere la lunghezza delle braccia e amplificare il volume del
tessuto in movimento. Il suo corpo scompariva e veniva sostituito da
curve e spirali plasmate dal costume. Qui un esempio danzato non da
Fuller ma da una delle sue rivali e filmato dai fratelli Lumière:
L’assolo
di Graham è meno ritmato nella manipolazione della stoffa. Il
costume è fatto di un top attillato nero con le maniche lunghe e di
una gonna molto lunga aperta dietro. Ad un certo punto, la danzatrice
inizia a muovere la gonna dal basso verso l’alto, rivelando il
colore interno che è rosso (un’altra versione della bandiera
anarchica era rossa e nera). Ripete questo gesto diverse volte e,
come nel caso di Fuller, la sua figura sembra venir riplasmata dal
tessuto in movimento. Qui l’assolo danzato da Katherine Crockett,
che è stata principal dancer della Martha Graham Dance Company:
Bandiere,
enormi bandiere, bandiere in movimento, bandiere che eseguono una
coreografia, bandiere come simboli controversi. Black Flags fa
riflettere, è un’affascinante manifestazione di elementi
coreografici, con una questione assente, un’affermazione (di
qualsiasi tipo) sul simbolismo della bandiera, che considero come
l’elefante nella stanza (espressione di matrice anglofona usata per
parlare di una questione molto evidente che però viene evitata).
Come ha scritto il poeta John Agard nella sua poesia “Bandiera”:
È solo un pezzo di stoffa
che mette una nazione in ginocchio (Agard, 2004).
REFERENCES
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Robert Longo, “I Will Strike the Sun”, Out of Sync – Art in Focus, 18 maggio 2016, youtube video, https://www.youtube.com/watch?v=n-jZFOAw46I (consultato 15 marzo 2019).
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Marina Warner, Monuments and Maidens – The Allegory of the Female Form (London: Picador, 1985).
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19 marzo 2019
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