sabato 12 dicembre 2020

Commiato

 

Scissure ci ha accompagnato per mesi in una serie di esplorazioni del mondo e delle sue circonvoluzioni attraverso gli occhi della danza. Abbiamo parlato di blackface con Domingo e della presenza e assenza di danzatori afrodiscendenti nel balletto con La Venere e la silfide e Misty Copeland. Copeland ha anche scritto un libro per bambini e abbiamo dedicato una puntata ai libri sulla danza per i più piccoli.

Abbiamo raccontato figure importanti come Merce Cunningham e il suo particolare modo di coreografare e Vaslav Nijinsky, che propose una immagine della maschilità fuori dagli schemi. Martha Graham, invece, creò un’immagine del femminile inusuale atta infatti a includere anche il maschile nella prima fase della sua carriera.

Abbiamo trattato coreografie significative come Man Walking Down the Side of a Building di Trisha Brown dove la forza di gravità viene sfidata, Il cortile dei Sosta Palmizi, dove la comunicazione entra in cortocircuito, Palermo Palermo di Pina Bausch dove la città respira un’aria desolata, Hunt di Tero Saarinen, dove l’arte multimediale entra in relazione con la danza e Medea di Abbondanza Bertoni dove il ruolo di madre della protagonista coesiste con quello di antimadre.

Abbiamo parlato di adattamenti, ossia il rifacimento coreografico di opere letterarie o di altro tipo, con esempi che spaziavano da Letter to the World di Martha Graham a Woolf Works di Wayne McGregor, fino a Carmen di Roland Petit e dell’omonimo film di Antonio Gades e Carlos Saura.

Abbiamo affrontato un altro fim, che ha fatto storia, Scarpette rosse, con il tema della follia inesorabilmente legato alla danza.

Abbiamo raccontato stili e tecniche diverse come il balletto con il binomio bambola ballerina e il butoh, danza giapponese dal carattere metamorfico.

Abbiamo infine indagato il tema del corpo come archivio, dell’accumulazione di informazioni che dà vita alla memoria muscolare e non solo e permette alla danza di esistere nella modalità in cui la conosciamo.

Ora Scissure vi saluta, sperando di aver mostrato come la danza stessa sia parte integrante del mondo e delle sue complicate sfaccettature, ma questo non è un addio, bensì un arrivederci, perché Scissure tornerà presto con nuove sorprese.

 

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12 dicembre 2020

giovedì 3 dicembre 2020

Se il corpo è un archivio


Da oltre un decennio, nel mondo della danza, si parla sempre di più del corpo come archivio. Ma cosa significa? Una spinta propulsiva a questo dibattito l’ha fornita Jacques Derrida con il suo complesso testo “Mal d’archivio. Un’impressione freudiana” del 1995 dove analizza il concetto di archivio in relazione agli scritti di Sigmund Freud.

Poi, nello specifico della danza, sono arrivati vari studi, come quello di Inge Baxmann del 2007, André Lepecki del 2010, Franz Anton Cramer del 2013 e Susanne Franco del 2019. Sono tutti studi molto articolati e di settore, ma che indagano la nozione di corpo come archivio con esiti molto stimolanti.

Ma che cos’è un archivio? La risposta non è né semplice né univoca. La Society of American Archivists lo definisce come una serie di “documenti di valore”, come lettere, manoscritti, fotografie, appartenenti a persone, aziende o governo. Lo studioso di archivistica Federico Valacchi definisce e ridefinisce il concetto nel suo volume, Diventare archivisti. In particolare, in una pagina particolarmente suggestiva, lo chiama “caleidoscopio documentario”, sottolineando che “l’archivio, così come la memoria di cui è custode e da cui è alimentato, non è mai un corpo statico”, ma anzi piuttosto vitale.

Seguendo quest’ultima definizione possiamo rintracciare dei punti in comune con la danza. Depositario di memoria cinetica e capace di una sua trasmissione, il corpo danzante non è mai statico e costituisce una forma di conoscenza importante.

Secondo Cramer, la “materialità del corpo” può diventare un‘“accumulazione di documenti” e la danza stessa non può aver luogo senza queste informazioni accumulate. Per fare un salto come un grand jeté, una spaccata in aria, ci vuole allenamento, ripetizione di movimenti, allungamento, insomma tutta una serie di esercizi atti a sviluppare quella che Martha Graham chiama la “memoria muscolare”.

Inoltre Franco nota che “se dunque, come afferma Derrida, la struttura dell’archivio e i metodi di archiviazione determinano la natura stessa di quanto è archiviato e del sapere che può essere prodotto, la danza e la performance, proprio per la loro originale capacità e possibilità di archiviare pratiche e saperi, possono contribuire alla concezione di nuove tipologie di archivi e all’esplorazione di nuove forme di conoscenza”.

La metafora del corpo come archivio è quindi ricca di spunti per ridefinire le discipline quali la storia secondo nuovi parametri e nuovi modi di intendere cosa sia un archivio. Se ci avviciniamo poi a culture storicamente di tradizione orale troviamo assunti affini al nostro concetto di indagine, come la celeberrima affermazione di Amadou Hampâté Bâ, secondo cui “in Africa quando muore un anziano, è una biblioteca che brucia”.

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Per approfondire:

Baxmann, Inge, “The Body as Archive. On the Difficult Relationship Between Movement and History”, in Sabine Gehm, Pirkko Husemann, Katharina von Wilke, a cura di, Knowledge in Motion. Perspectives Artistic and Scientific Research in Dance (Bielefeld: Transcript, 2007), pp. 207-215.

Cramer, Franz Anton, “Body, Archive”, in Gabriele Brandstetter, Gabriele Klein, a cura di, Dance [and] theory (Bielefeld: Tanscript, 2013), pp. 219-221.

Derrida, Jacques, Mal d’archivio: un’impressione freudiana [1995] (Napoli: Filema, 1996).

Franco, Susanne, “Corpo-archivio: mappatura di una nozione tra incorporazione e pratica coreografica”, Ricerche di S/Confine, Dossier 5, 2019, pp. 55-65.

Graham, Martha, “A Modern Dancer’s Primer for Action”, in Frederick Rand Rogers, a cura di, Dance: A Basic Educational Technique (New York: The MacMillan Company, 1941), pp. 178-187.

Hampâté Bâ, Amadou, Aspetti della civiltà africana, trad. Giusi Valent (Como: Ibis, 2017).

Lepecki, André, 2016, ‘Il corpo come archivio: volontà di ri-mettere-in-azione e vita postuma delle danze’ [2010], Mimesis Journal. Scritture della performance, n.1, 2016, pp. 30-52.

Society of American Archivists, ‘About archives’, https://www2.archivists.org/about-archives (consultato il 28 novembre 2020).

Valacchi, Federico, Diventare archivisti (Milano: Editrice Bibliografica, 2015).

 

3 dicembre 2020

giovedì 26 novembre 2020

Misty Copeland

Ci sono diversi modi di passare alla storia, magari con un’invenzione particolare o perseguendo lotte per i diritti umani. Misty Copeland appartiene a questa seconda categoria. Infatti nel 2015 è passata alla storia come la prima ballerina africana americana divenuta princiapl dancer dell’Amercian Ballet Theatre, una delle più importanti compagnie di balletto al mondo.

Ad un primo sguardo non sembrerebbe una rivouzione, ma se si va oltre la patina glamour che permea il balletto, si comprende che la linea del colore è ancora un tabù. Il balletto è storicamente un’arte dei bianchi che di rado ha accolto fra le sue fila delle ballerine nere. Quando nacque il balletto romantico, negli anni Trenta dell’Ottocento, diverse culture africane erano state colonizzate e/o ridotte in schiavitù, per cui uno spazio per loro nel mondo rarefatto della danza classica era impensabile. Ricorrevano però i personaggi afrodiscendenti in blackface.

Il balletto è fatto di armonia e omogeneità e la presenza di ballerine o ballerini afrodiscendenti, secondo alcuni, spezza in parte la sua estetica. Copeland stessa, quando era ballerina di fila all’ABT non venne inserita ne Il Lago dei cigni che la comapgnia filmò proprio per questa ragione.

Copeland non è la prima ballerina africana americana, ma è la prima ad aver raggiunto un ruolo di primo piano presso l’ABT, il che fa pensare alla volontà di cambiamento di questo mondo. Da allora è divenuta un simbolo per questa causa e ha promosso la diversità all’interno del mondo del balletto.

C’è ora un notevole giro di marketing attorno alla sua figura, ma non è solo marketing fine a se stesso proprio perché dietro c’è una lotta importante. Già prima di assurgere a principal dancer, Copeland si era fatta notare nel video di Prince Crimson and Clover del 2009 e nel 2014 era uscita la sua autobiografia, co-scritta assieme a Charisse Jones, Misty Copeland – Life in Motion, an Unlikely Ballerina dove raccontava della sua difficile infanzia e adolescenza e della sua passione per la danza classica, in cui vedeva e vede una forma di libertà.

C’è poi stata un’intervista con Barak Obama nel 2016 e la sua linea di abbigliamento sportivo Under Armour nel 2017, oltre che un ruolo nel film della Disney, The Nutcracker and the Four Realms del 2018. Copeland ha continuato a scrivere con il libro per bambini, Firebird del 2014 e con il testo per amanti della danza e del fitness, Ballerina Body – Dancing and Eating your Way to a Leaner, Stronger and More Graceful You del 2017.

In particolare, Firebird tratta di una ballerina afrodiscendente che insegna una sua piccola allieva, anche lei afrodiscendente, a superare le difficoltà e a danzare come il famoso Uccello di Fuoco, personaggio del balletto di Michael Fokine del 1910, “cara bambina, sai, ti trovi dove io ho iniziato, lascia che il sole illumini il tuo viso, il tuo inizio è appena cominciato”.


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Per approfondire:

Copeland, Misty, con Charisse Jones, Misty Copeland – Life in Motion, an Unlikely Ballerina (New York: Touchstone, 2014).

Copeland, Misty, Firebird, illustrazioni di Christoper Myers (New York: Putnam’s Sons, 2014).

Copeland, Misty, con Charisse Jones, Ballerina Body – Dancing and Eating your Way to a Leaner, Stronger and More Graceful You (London: Sphere, 2017).

Simonari, Rosella, “Afrofutirst Degas”, Roots-Routes – Research on Visual Cultures, anno IX, n. 31, Settembre 2019, http://www.roots-routes.org/afrofuturist-degas-by-rosella-simonari/.

 

26 novembre 2020

venerdì 20 novembre 2020

Il sottosuolo del Giappone


Cos’è la bellezza? Cos’è la vera bellezza? Un corpo muscoloso ben allenato o il corpo di un anziano che si muove sul palco? Dipende dai punti di vista. Una performance particolarmente significativa è l’assolo di danza butoh, Omaggio per Argentina, interpretato da un anziano Kazuo Ono nel 1977 per la regia di Tatsumi Hijikata. Antonia Mercé detta La Argentina era stata una danzatrice e coreografa di danze spagnole e flamenco molto famosa negli anni Venti e Trenta del Novecento. Nel 1929 Ono la vide danzare a Tokyo e ne fu folgorato, paragonando la sua danza alla creazione del mondo. Ono nella coreografia rievoca l’immagine di questa grande danzatrice e rivive “le sensazioni che lei ha fatto nascere” in lui, da cui l’omaggio.

Il butoh è un tipo di danza giapponese nato alla fine degli anni Cinquanta per contrastare le estetiche dominanti ed esaltare la bruttezza, il grottesco, l’invecchiamento dei corpi e la morte. È di carattere anticonformista e critico della cultura materialista in cui viviamo. I suoi fondatori furono Hijikata e Ono. Il butoh venne riconosciuto ufficialmente in Giappone solo nel 1985, dopo il successo avuto all’estero. Per questo e per le sue caratteristiche anticonvenzionali rappresenta, almeno all’inizio, il “sottosuolo del Giappone”, come sottolinea Maria Pia d’Orazi.

Secondo Ono, prima di una tecnica o di una struttura, nel butoh occorre pensare alla mente, allo spirito o alla vita. Egli infatti predilige l’improvvisazione nei suoi spettacoli, “seguo semplicemente la vita” dice. Questo scavo interiore viene coniugato con un lavoro sul corpo e sulle sue articolazioni, oltre che sullo sguardo, chiamato lo “sguardo dei morti” che nelle parole di Roberta Carreri si traduce in “uno sfocamento, un rilassamento completo dei nervi che tengono l’occhio, per cui non guardi più fuori ma guardi dentro”.

Hijikata, al contrario di Ono, utilizza la composizione coreografica ricorrendo a delle parole legate, secondo d’Orazi a differenti argomenti, come “il mondo dell’abisso, dei fiori, di uccelli e animali, del muro, dell’anatomia, della neurologia, dei ponti bruciati”. La sua però non è una coreografia “generalizzata” ma si forma, parole incluse, tenendo presente la personalità di ogni danzatore.

In entrambi i casi il risultato ha dato vita a delle performance sconvolgenti fatte di presenze corporee molto forti e di una bellezza struggente.

 

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Per approfondire:


Carreri, Roberta, citata in Maria Pia D’Orazi, Kazuo Ono (Palermo: L’Epos, 2001).

D’Orazi, Maria Pia, Kazuo Ono (Palermo: L’Epos, 2001).

Kazuo Ohno: Admirando a La Argentina, https://www.youtube.com/watch?v=UjwipWoke5w (consultato il 9 novembre 2020)

Kazuo Ohno on technique and motivation, https://www.youtube.com/watch?v=paHf7Dfaky4 (consultato il 9 novembre 2020)

 

20 novembre 2020

giovedì 12 novembre 2020

Pubblicato il mio saggio sul'archivio di Alberto Spadolini

 

Il mio saggio, "Alberto Spadolini's Box: Dance, Silence and the Archive" è stato pubblicato su Dance Research, vol 38, n. 2, November 2020. Qui i dettagli.


12 novembre 2020

O la danza o la vita


Il cinema si è dedicato alla danza in molti modi. Per esempio il musical ha dato lustro a tecniche di danza quali il tip tap con danzatori del calibro di Fred Astaire e Gene Kelly. Nel 1948 il cinema ha dedicato un film alla danza con Scarpette rosse, prodotto e diretto da Micheal Powell e Emeric Pressburger.

La storia racconta di una famosa compagnia di danza, il Ballet Lermotov, guidata dallo spietato Boris Lermotov, ossia Anton Walbrook, alle prese con la creazione di un nuovo balletto, Scarpette rosse, ispirato alla favola di Hans Christian Andersen. Come Lermotov sottolinea nel film, la favola tratta di una ragazza che intende indossare un paio di scarpette rosse per andare al ballo. All’inizio tutto è perfetto e la ragazza danza felice. Poi però quando comincia ad essere stanca, scopre che le scarpette rosse non sono affatto stanche e la costringono a danzare senza sosta fino a quando sopraggiunge la morte.

Per il ruolo della protagonista Lermotov sceglie la giovane e promettente Victoria Page, Moira Shearer, che si professa totalmente devota alla danza. In uno scambio di battute fra i due alla domanda di Lermotov “Perché vuole danzare?, Page risponde con un’altra domanda emblematica, “Lei perché vuole vivere?”. Lermotov crede fermamente che un artista si debba dedicare in modo assoluto alla sua arte e quando Page si innamora del giovane compositore Julian Craster, interpretato da Marius Goring, egli licenzia Craster e Page lo segue lasciando la compagnia.

Il desiderio di danzare però è forte come è forte l’amore di Page per Craster. Quando Lermotov le chiede di decidere fra i due, Page si suicida. Se nei musical il tono è di solito comico, in Scarpette rosse è drammatico. Come nota David Ehrenstein, il film si concentra sulla devozione che si può sviluppare per un’arte come la danza in un periodo, quello postbellico, dove ancora risuonava il mantra di andare a morire per la libertà e la democrazia. Nel film è come se si chiedesse con lo stesso pathos a Page di andare a morire per l’arte.

Di particolare interesse è la sequenza danzata nel film, una delle più lunghe sequenze di danza pura, una mossa molto audace per l’epoca. In questo senso la scelta di Shearer, una ballerina, è stata particolarmente azzeccata in quanto fornisce rotondità e veridicità al personaggio.

Scarpette rosse è stato un grande successo che ha portato generazioni di persone a studiare danza e ha portato la danza, il balletto in particolare, al grande pubblico. Ponendo il tema della danza in termini di vita o di morte ha sottolineato il sacrificio che ci può essere dietro questo mestiere, dandogli dignità e rispetto.

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Per approfondire:

Ehrenstein, David, The Red Shoes: Dancing for your Life, https://www.criterion.com/current/posts/1518-the-red-shoes-dancing-for-your-life (consultato il 31 ottobre 2020).

The Red Shoes [Scarpette rosse], dir. Micheal Powell, Emeric Pressburger (1948).

 

12 novembre 2020

giovedì 5 novembre 2020

Madre antimadre


In una società in cui ancora oggi si idealizza la figura materna come buona e brava a prescindere, la figura di Medea ci pone interrogativi profondi e dolorosi. Medea è madre e antimadre, amore e gelosia, magia e inganno. La più famosa versione della sua storia è forse quella di Euripide dove Medea avvelena Glauce, la donna con la quale il suo Giasone l’ha tradita, e commette l’atto inammissibile di uccidere i figli avuti con lui.

Nella danza vi sono vari adattamenti, come Cave of the Heart del 1946 di Martha Graham. Nel 2004 la compagnia Abbondanza Bertoni ne ha presentato uno di particolare interesse. Seconda opera della trilogia “Ho male all’altro”, affronta il tema dal punto di vista del sacrificio per amore, il sacrificio, come sottolineano i due coreografi, “di altri da sé”.

Secondo Francesca Pedroni, in questa Medea vi è la ricerca di “una qualità espressiva ‘deformata’ nel gesto e nei tempi dello spettacolo. Una qualità che tende alla creazione di una danza ‘da fantoccio’, che prende distanza dall’io e dall’autobiografismo”. E lo si vede sin da subito quando i personaggi entrano in scena e la loro dinamica oscilla fra staticità e movimenti a scatti.

L’atmosfera è complice di questo modo di accostarsi alla danza con la scenografia di Lucio Diana fatta di un ponte levatoio che scandisce la tre sezioni dell’opera, una nebbia presente spesso in scena e una serie di oggetti simbolo, come nota Valeria Morselli, atti a rimandare a suggestioni più che a significare letteralmente qualcosa. Fra questi le farfalle di carta che rimandano “all’innamoramento di Medea” e il tavolo, luogo di incontro fra Glauce e Giasone, ma anche tomba di Glauce stessa dopo che Medea l’ha avvelenata.

La Medea antimadre emerge soprattutto verso la fine quando Bertoni interpreta la scena del furore per il tradimento del marito, impugnando un lungo bastone in cima al quale è attaccata proprio una delle farfalle di carta. Per elaborare questa parte, i due coreografi si sono ispirati alle arti marziali, partendo dal tai chi per arrivare ad una dimensione “grottesca”, come la definisce Abbondanza.

Ed infine l’uccisione dei figli, eseguita quasi con tenerezza e rassegnazione. Dopo di che Medea siede sfinita a terra con le spalle rivolte verso il pubblico. Non è una scena di condanna, Medea non viene vista come cattiva madre, ma come una donna disperata che sacrifica la propria prole per amore. Bertoni ha lavorato duramente a questa scena poiché, essendo madre, le restava difficile entrarci. E nota che “quello dell’infanticidio è un argomento che una donna affronta nella speranza ultima di non trovarsi mai a commettere un atto simile”.

 

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Per approfondire:

Cervellati, Elena, Abbondanza Bertoni – Interviste sulle coreografia contemporanea, dirette da Susanne Franco (Palermo: L’Epos, 2005).

Morselli, Valeria, L’essere scenico – Lo Zen nella poetica e nella pedagogia della Compagnia Abbondanza Bertoni (Macerata: Ephemeria, 2007).

Pedroni, Francesca, “La coppia, voce del corpo, voce dell’anima”, www.abbondanzabertoni.it (consultato il 30 ottobre 2020).

 

5 novembre 2020

giovedì 29 ottobre 2020

Carmen danza


Cosa significa danzare uno spirito libero? Quale tecnica si può utilizzare? L’esempio che viene in mente è la figura di Carmen, la gitana spagnola la cui sensualità porta gli uomini alla perdizione e il cui spirito indipendente la porta a sacrificare la propria vita per la libertà. Innamorato di lei, il soldato José va in carcere e uccide diventando un fuorilegge a causa sua. Ma Carmen è una donna libera e, di fronte a questo, José, geloso e possessivo, la uccide.

Carmen è nata dalla penna di Prosper Mérimée nel 1845 ed è interessante notare come il fatto che danzi è presente sin dalla novella. José le chiede esplicitamente di danzare per lui. Danzare è parte della sua abilità nel sedurre. La danza che caratterizza Carmen nella novella viene definita ‘romalis’, un tipo di danza gitana che si è poi trasformata in flamenco. Nel 1875 parte della storia viene ripresa da Georges Bizet nell’omonima opera e la danza figura soprattutto nell’aria che apre il secondo atto.

Nel momento in cui la storia viene adattata in danza, però, lo spirito stesso di Carmen, non solo la sua abilità nel sedurre, viene veicolato tramite differenti tecniche come la danza classica e il flamenco.

Per quanto riguarda la prima nel 1949 Roland Petit propone una versione che viene definita scandalosa per la parte dedicata alla scena d’amore fra José e Carmen. La sintesi narrativa è magistrale e il balletto, costituito da un unico atto in cinque scene, è caratterizzato da una Carmen che sembra più una diva da music-hall che una gitana di Spagna. Nonostante questo, in più di un’occasione, la coreografia presenta una versione originale della danza flamenca, per esempio con un zapateado [il battere ritmato dei piedi] eseguito sulle punte dalla carismatica Zizi Jeanmaire nei panni di Carmen. Di forte impatto lo scontro finale fra Carmen e José, dove i due ‘duellano’ a colpi di battements, salti e testa contro testa in un crescendo teso e ineluttabile.

Riguardo al secondo nel 1983 il film di Carlos Saura con coreografie di Antonio Gades segna uno spartiacque in quanto mette in discussione il mito di Carmen in sé, rivelandolo come costruzione culturale creata dal Romanticismo francese e perpetrata acriticamente da molti dei successivi adattamenti. Questo viene fatto attraverso l’escamotage della trama che vede il coreografo Antonio, interpretato da Gades stesso, alle prese con le prove della sua compagnia per allestire una versione flamenca di Carmen. Le danze di gruppo, quali quella tutta femminile della tabacalera, sono fenomenali come pure i passi a due e gli assoli. Inoltre lo stile essenziale e privo di enfasi di Gades permette una visione del flamenco che va aldilà degli stereotipi. Per Gades Carmen è una donna del popolo, una donna forte e indipendente e il suo flamenco forse rappresenta il modo migliore per esprimerlo.

Carmen danza e continuerà a danzare libera!

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Per approfondire:

Carmen, musica Georges Bizet (1875).

Carmen, cor. Roland Petit (1949).

Carmen, dir. Carlos Saura, cor. Antonio Gades (1983).

Mérimée, Prosper, Carmen [1845] (Milano: Mondadori, 2002).

Simonari, Rosella, “Bringing Carmen Back to Spain: Antonio Gades’s Flamenco Dance in Carlos Saura’s Choereofilm”, Dance Research, Vol 26, n. 2, Winter 2008, pp. 189-203.

 

29 ottobre 2020

giovedì 22 ottobre 2020

Tutù prismatico

 


Il tutù è immancabilmente legato alla magica immagine della ballerina. Secondo Judith Chazin-Bennahum ha contribuito a cambiare il modo di muoversi e il modo stesso di vedere e percepire la ballerina. Quando nel secondo atto di Giselle, la protagonista viene trasformata in wili dalla regina Myrtha, esegue una serie di piroette e salti che il tutù bianco evidenzia ed esalta.

Il tutù indossato da uomini spesso ha risvolti comici. Hunt di Tero Saarinen si distingue per l’uso di una gonna-tutù che di comico non ha nulla. Anzi. Creato dalla costumista della compagnia, Erika Turunen, decostruisce la struttura a raggiera del tutù classico, utilizzando pannelli di tessuto e vari altri materiali cuciti insieme. È lungo fino ai piedi e viene indossato da Saarinen direttamente sul palco in un momento quasi rituale.

Hunt è una coreografia del 2002, creata su commissione di Carolyn Carlson, l’allora direttrice della Biennale di Venezia Danza. Si tratta di un adattamento-remake del Sacre du printemps di Vaslav Nijinsky, che venne presentato per la prima volta nel 1913 con grande clamore e che venne ripreso da numerosi coreografi del Novecento e non solo, come Pina Bausch e Martha Graham. Hunt, a differenza dell’opera di Nijinsky, è un assolo che reinterpreta il tema del sacrificio in modo originale.

Per questa coreografia, Saarinen ha pensato a diverse questioni, come l’invecchiamento, la perdita di un caro amico e il costante afflusso di informazioni che riceviamo ogni giorno dai media. Queste riflessioni lo hanno portato a sviluppare l’idea di cacciatore e preda allo stesso tempo (hunt significa cacciare, andare a caccia). Sul palco un cerchio formato da dei riflettori circonda il danzatore suggerendo l’immagine di un’arena dove avviene una lotta. Contro chi combatte questa figura? E che ruolo ha il tutù?

Uno dei momenti clou della coreografia si ha quando Saarinen si ferma come pietrificato a alza parti del tutù che, assieme al suo corpo, diviene schermo per una serie di proiezioni da parte dell’artista multimediale Marita Liulia. L’effetto è prismatico e allucinogeno. Ecco esemplificato il bombardamento di informazioni a cui siamo costretti ogni giorno, bombardamento che non ci permette di elaborare criticamente quanto ci viene dato.

Guardando attentamente le immagini proiettate si comprende poi che si tratta di Saarinen, una scelta che porta a pensare al fatto che la lotta è contro se stessi. Il tutù prismatico si mostra quindi come specchio indagatore del nostro io, che ci interroga su quanto di noi siamo disposti a sacrificare, rivelare o semplicemente dar via.

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Per approfondire:


Autio, Iris, Westeward Ho! Wavelengths Hunt, Tero Saarinen Company, 2006.

Chazin-Bennahum, Judith, The Lure of Perfection – Fashion and Ballet, 1780-1830 (New York: Routledge, 2005).

Hunt, cor. Tero Saarinen (2002).

Sacre du printemps, cor. Vaslav Nijinsky (1913).

Simonari, Rosella, “Moving fabric – Costumes and Movement in Tero Saarinen’s Dances”, novembre 2009, ballet-dance.com (non più online).

 

22 ottobre 2020

giovedì 15 ottobre 2020

Danzare dentro la città

 


Secondo Wolf Bukowski nelle nostre città si sta vivendo una guerra “contro poveri, migranti, movimenti di protesta e marginalità sociali”, in nome del decoro e della sicurezza, categorie senza senso perché disancorate rispetto al sociale così che alla fine quasi contano più le fioriere che “le vite umane”. Mi chiedo cosa penserebbero i promotori del decoro e della sicurezza di Palermo Palermo, stück di Pina Bausch del 1989.

Esempio delle coreografie che Bausch ha dedicato al viaggio, si apre con un momento shock: la caduta di un muro di mattoni che rimanda alla caduta del muro di Berlino anche se Bausch è stata reticente al riguardo. Questo incipit rimanda anche ai lavori di ristrutturazione e demolizione che avvengono nelle città, nonché alle barriere architettoniche di cui si parla ma poco si fa. Quello che è interessante è che i mattoni del muro restano in scena e rappresentano parte integrante della scenografia che consta di oggetti, materiali e liquidi.

Insieme costituiscono una sorta di spazzatura dell’anima in quanto gli interpreti interagiscono di volta in volta con essi, inscenando, come sottolinea Roberto Giambrone, “la condizione femminile, le contraddizioni della società contemporanea, i rapporti conflittuali, la difficoltà di comunicare, la solitudine, lo smarrimento, la malinconia e un’indefinibile nostalgia”.

Non mancano frasi coreografiche ripetute, come è tipico di Bausch e neanche scenette comiche, come quella della donna con gli spaghetti sottobraccio che si rivolge al pubblico con fare aggressivo, tirandone fuori uno ad uno. Giambrone nota inoltre come “i danzatori compiano azioni che tradiscono il bisogno di solidarietà, di complicità nel pericolo”, come quando spesso un danzatore solleva o sostiene un altro.

Alcuni critici hanno notato come emerga però un’atmosfera desolata e violenta. C’è per esempio una scena in cui una donna stesa a terra viene legata mani e piedi. Si alza e si muove a fatica per poi raccontare una storia di suicidio agghiacciante.

Sono questi i risultati del metodo Bausch, secondo cui ogni stück o pezzo, come chiama le sue opere, viene costruito assieme agli interpreti ai quali vengono rivolte delle domande atte a far scaturire gesti e frasi coreografiche, “da cucire poi orizzontalmente”, secondo Elisa Vaccarino, “senza un ordinamento gerarchico, in pezzi assemblati per la scena, cioè per un teatro dell’esperienza denso e trasparente insieme”.

Alla domanda su cosa sia uno stück, Bausch risponde: “è una piccola parte di quello che sento e che ho dentro di me. (…) All’inizio non c’è niente, solo un sentimento, follemente preciso; poi emergono, a tastoni, molte, molte piccole storie; nel periodo delle domande, ognuno risponde liberamente con movimenti o con parole a ciò che chiedo; (…) raccolgo appunti su tutto, poi seleziono le proposte, scartando la maggior parte di ciò che è venuto fuori, per arrivare a una forma che assomigli all’idea che me n’ero fatta”.

In Palermo Palermo quindi si danza la città, ma anche e soprattutto dentro la città, dentro le sue emozioni e le sue vibrazioni più forti, senza soglie di sicurezza o decoro.

 

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Per approfondire:

Bausch, Pina, in “Colloquio con Pina Bausch”, in Elisa Vaccarino, Altre scene, altre danze (Torino: Einaudi, 1991).

Bukowski, Wolf, La buona educazione degli oppressi – Piccola storia del decoro (Roma: Alegre, 2019).

Giambrone, Roberto, Pina Bausch – Le coreografie del viaggio (Macerata: Ephemeria, 2008).

Vaccarino, Elisa, Altre scene, altre danze (Torino: Einaudi, 1991).

 

15 ottobre 2020

venerdì 9 ottobre 2020

Le Scissure del covid – come moltiplicando i nostri spazi interni ci salveremo dalla gabbia del covid

Foto Roberto Frey.
 William Kennick, in un articolo apparso nel 1958 su “Mind”, ci pone un interessante paradosso: “Supponiamo che una persona si trovi davanti all’ingresso di un grande magazzino nel quale siano state accumulate opere d’arte di ogni genere insieme ad altri oggetti di uso comune e che qualcuno le dica: vai all’interno e tira fuori tutte le opere d’arte, e solo esse”.

È subito lampante la quantità di riflessioni che questa provocazione ci mette di fronte: quando si può dire che un determinato fenomeno è arte, e in cosa l’arte assolve la sua funzione, sono solo due dei quesiti che ci possiamo porre.

La quarantena, e più in generale il fenomeno covid, ci pone davanti a simili ragionamenti: in questo enorme magazzino che è stato l’isolamento sociale, l’arte e la produzione artistica sono stati gli spesso bistrattati protagonisti. I balconi di ogni città si sono riempiti di cantanti, musicisti, attori e performer improvvisati. Presi singolarmente, questi fenomeni sono ben lontani dal poter essere considerati espressioni artistiche. Cosi come, prese singolarmente, le creazioni artistiche di un paziente psichiatrico difficilmente possono essere considerate opere d’arte. È solo quando Dubuffet riconosce l’importanza di queste opere a livello sociale e terapeutico, che assumono dignità artistica sotto il nome di Art Brut. Questo potrebbe quindi portarci a domandare se il fenomeno delle espressioni performative dalle terrazze, prese nella loro dimensione collettiva, giungeranno mai un giorno ad acquisire una qualche forma di riconoscimento accademico, ben contestualizzato ovviamente nel tempo e nello spazio, e quindi se si potrà mai aprire una discussione attorno all’utilità di espressioni artistiche tali.

Una frase che ha fatto scalpore in quarantena è stata quella del presidente del consiglio Conte, che in occasione del decreto rilancio ha citato i lavoratori del settore spettacolo ricordandoli come “i nostri artisti, che ci fanno tanto divertire”. È evidente che questa espressione, detta in modo bonario, non ha pretesa di esaurire le funzioni del mondo dell’arte in maniera esclusivamente ludica e di intrattenimento. È però un dato come nel periodo di quarantena, i live streaming di attori, performer e musicisti siano proliferati e come effettivamente siano stati utili nell’assolvere l’arduo compito di mantenere alto il morale di tutti coloro che per mesi sono stati confinati in casa, spesso in situazioni di solitudine e difficoltà economiche.
Foto Alessandro Menga.

A questi due fenomeni artistici – le esibizioni spontanee dai veroni, e le performance online dei lavoratori del mondo dello spettacolo - si contrappone una terza via: quella di tutti coloro che, pur avendo una professione che si attua di fronte a un pubblico hanno scelto di vivere l’esperienza dell’isolamento sociale senza produrre nulla ne mostrarsi sotto i riflettori domestici, ma usando questo tempo per riflettere e ampliare il proprio immaginario interno, creando spazio di riflessione dove spazio non ce ne era invece di rispondere al confinamento con un’esplosione verso l’esterno.

Il progetto “Le scissure del covid” nasce da persone che han scelto questa ultima via. Da una parte, Giorgia Sestilli, bibliotecaria di Casa delle Culture di Ancona, che ha digitalizzato il Fondo Marinelli, andando quindi a portare nel web contenuti che stonano con il mondo online: volumi, opere e manoscritti, importanti testimonianze storiche che risalgono all’800 legate alla storia di Ancona.

Dall’altra le altre due anime di questo progetto, Stefania Zepponi - danzatrice e coreografa - e Rosella Simonari - storica della danza; insieme hanno sviluppato una riflessione intorno al concetto di distanziamento sociale creando un progetto articolato che non va a criticare le misure di contenimento, bensì si interroga su di esse, analizzando attraverso la lente della danza concetti come lo spazio, la prossimità, le corrispondenze tra corpi e che assieme al contributo di Giorgia vanno a toccare il cuore di questa performance: come l’arte e l’artista diventino fondamentali solo se toccati dallo sguardo dei fruitori.

Foto Alessandro Menga.

Il primo momento di questo ciclo di tre appuntamenti (avvenuto nella suggestiva cornice del tempio di san Rocco, nella Mole Vanvitelliana di Ancona) si compone di una riflessione-dialogo guidato da Stefania e Rosella in cui il pubblico viene chiamato a condividere le proprie suggestioni riguardo a come l’esperienza della quarantena abbia influenzato la percezione di distanze e misure, le corrispondenze tra persone e la fruizione dell’ambiente che ci circonda. Ma non si limita a questo: il pubblico viene guidato in un brain storming basato non esclusivamente sulla logica ma in maniera preponderante sulle intuizioni liriche dei partecipanti, che forniscono parole legate a concetti dell’area semantica della quarantena come il distanziamento, il rapporto con altri corpi nello spazio e l’emotività che il porre l’attenzione su questi concetti provoca. Su cinque di queste parole, sorteggiate in maniera casuale, viene chiesto al pubblico di esprimere un gesto. Grazie a questi gesti viene poi montata una Line (forma espressiva ideata da Pina Bausch basata su gesti del quotidiano in sequenza danzati su un camminare ritmico nello spazio), gesti che diventano forme significanti della quarantena nella sua trasposizione performativa. Questa sequenza diviene definizione stessa di come l’arte e l’espressione fisica possa divenire catartica e aiutare il fruitore nell’elaborare momenti di vita difficili o semplicemente nuovi: il movimento diviene forma d’arte: come avrebbe detto Hegel, esistenza sensibile dell’idea, messa in opera della verità.

Foto Ennio Pennacchioni.

La fine della line coincide fisicamente con l’inizio dell’ultima tappa di questo percorso, all’interno della Mole Vanvitelliana. La sala è allestita per consentire la fruizione del fondo Marinelli, preziosa raccolta di volumi storici digitalizzata da Giorgia. Sul lato distale rispetto all’ingresso è posizionato infatti un tablet da cui si può accedere al catalogo online. All’interno della sala si respira un’atmosfera molto diversa rispetto a quella appena trascorsa durante la line: se gli spazi aperti e ampi della corte interna della Mole permettono infatti di poter rispettare le misure di prevenzione e distanziamento conservando tuttavia un certo grado di libertà spaziale, all’interno della sala la fila per arrivare al tablet impone un rigido collocamento predefinito. La stanza in cui si snoda la fila è divisa a metà da un cordone di sicurezza, oltre cui Giorgia e Stefania si trovano in maniera apparentemente casuale. In realtà non stan così le cose: le due performer, nel momento in cui si accorgono di avere addosso lo sguardo, magari curioso, magari sbadato, di uno dei partecipanti iniziano a instaurare una relazione performativa con il pubblico, in cui la danza di Stefania e le letture di Giorgia vengono proposte in maniera del tutto inaspettata e frammentaria.

L’attenzione e il riconoscimento della platea è, effettivamente, ciò che permette all’arte di manifestarsi e essere. Questo avviene sia nella fruizione online che in presenza. Il discrimine è costituito dal fatto che in ultima analisi vi è la presenza fisica dei fruitori dell’atto performativo, e questo non può che influenzare la relazione con l’opera determinata. Le Scissure del Covid ci lascia con questo messaggio: l’esperienza online non può sostituirsi alla fruizione in loco, ma affiancarsi ad essa per moltiplicare le possibilità immaginifiche di performer, artisti e artigiani.


Giovanni Purpura



9 ottobre 2020

giovedì 8 ottobre 2020

C'era una volta la danza

 

Da adolescente, quando studiavo danza, interpretai il ruolo del lupo in un saggio di fine anno. Lo spettacolo riprendeva le favole e le metteva sottosopra. Ricordo il mio costume con dei piedi enormi e ricordo che in una scena i tre porcellini mi correvano dietro. L’effetto era molto comico e la parodia riuscita. Mi chiedo cosa pensò il pubblico. Le favole nutrono l’immaginazione di grandi e bambini e contribuiscono a plasmare le nostre soggettività. Quel lupo danzante resterà sempre con me...

La danza è presente in diversi libri per bambini sia in Italia che nel mondo angloamericano, che è quello che conosco un po’. Alcuni libri riprendono i balletti classici, come Il Lago dei cigni elegantemente illustrato da Valeria Docampo e prodotto in collaborazione con il New York City Ballet o Ella Bella Ballerina and Swan Lake di James Mayhew (in inglese). Se il primo riprende la storia originale del balletto, il secondo apporta delle modifiche in quanto la piccola Ella Bella entra direttamente nella storia.

Un altro esempio interessante è dato dai Racconti illustrati dai Balletti, dove le illustrazioni di Yvonne Gilbert Nanos optano per il colore nero della pelle dei protagonisti, in un gioco cromatico inusuale che pone varie riflessioni che spaziano dal blackface alla presenza limitata di ballerine afrodiscendenti nella danza classica.

A questo proposito vi sono alcuni testi importanti, come la serie per bambini più grandicelli, Sarò una stella di Elizabeth Barféty, in collaborazione con l’Opéra National de Paris e Campioni della danza di ieri e di oggi, una sorta di piccola enciclopedia che include anche Misty Copeland e Carlos Acosta.

In inglese c’è Dancing in the Wings di Debbie Allen, che racconta la storia di una bambina africana americana alta e dai piedi grandi che ha difficoltà ad inserirsi nella scuola dove studia. O anche Trailblazer – The Story of Ballerina Raven Wilkinson, una breve biografia illustrata che mostra le difficoltà affrontate dalla protagonista nell’abbattere la linea del colore. Infine abbiamo Firebird di Misty Copeland che propone un taglio differente nei confronti di questo tema, perché una ballerina africana americana insegna a una sua piccola allieva a danzare come il famoso Uccello di fuoco.

Da questo succinto elenco si può dedurre come molti titoli siano dedicati alla danza classica, ma ci sono delle eccezioni. Una è data dal bel libro su Isadora Duncan di Sabina Colloredo dove si mostra una Duncan bambina “con la grazia di una farfalla e la forza di un uragano”. Un’altra la si trova ne La ballerina cosmica di Linda Ferri, dove “Pepita vuole fare la ballerina, ma senza scarpette che imprigionano i piedi”. Un’altra ancora nella serie di Flora e… di Molly Idle dove la bimba Flora fa amicizia con un fenicottero o un pinguino a passi di danza. In inglese c’è il simpaticissimo Because… di Mikhail Baryshnikov, dove una nonnina ballerina mette spesso in imbarazzo suo nipote con le sue evoluzioni.

E allora ripenso al lupo danzante da me impersonato e mi convinco che la danza può essere una bellissima favola!


QUI si può ascoltare la puntata

Per approfondire:


Allen, Debbie, Nelson, Kadir, Dancing in the Wings (New York: Puffin Books, 2000).

Barféty, Elizabeth, Sarò una stella (Roma: Gallucci, 2019).

Baryshnikov, Mikhail, Radunsky, Vladimir, Because… (New York: Atheneum Books for Young Readers, 2007).

Colloredo, Sabina, Isadora Duncan (Trieste: Edizioni EL, 2006).

Copeland, Misty, Myers, Christopher, Firebird (New York: Penguin, 2014).

Davidson, Susanna, Daynes, Katie, Cullis, Megan, Gilbert Nanos, Yvonne, Racconti illustrati dai balletti (London: Usborne, 2018).

Ferri, Linda, La ballerina cosmica (Milano: Salani, 2013).

Idle, Molly, Flora e… (Roma: Gallucci, 2013).

Mayhew, James, Ella Bella Ballerina and Swan Lake (London: Orchard Books, 2011).

New York City Ballet, Docampo, Valeria, Il lago dei cigni (Milano: Terre di Mezzo, 2019).

Rossi, Sarah, Antonioni, Eleonora, Campioni della danza di ieri e di oggi (Trieste: Edizioni EL, 2018).

Schubert, Leda, Taylor III, Theodore, Trailblazer – The Story of Ballerina Raven Wilinson, foreword by Misty Copeland (New York: Little Bee Books, 2018).

 

8 ottobre 2020

venerdì 2 ottobre 2020

Adattamenti


Quando andiamo al cinema a vedere un film ispirato ad un romanzo spesso ci affrettiamo a dire, “il libro era meglio”, “il film non rende la storia” e così via. E quando andiamo a vedere la danza ispirata ad un opera letteraria cosa pensiamo? Si fa lo stesso raffronto? Forse meno, anche se diversi classici, come Coppélia e L’Après-midi d’un faune sono inesorabilmente legati ad un testo.

Qual è il rapporto fra danza e narrazione? È un rapporto complesso e sfaccettato che nel caso di trasposizione di un testo si chiama adattamento in danza. Non è semplice in quanto presuppone un modo di accostarsi alle arti in senso dialogico e comparativo. Allo stesso tempo è un percorso affascinante poiché permette di evidenziare le specificità di ogni arte e analizzare cosa l’una può dire tramite e sull’altra. Come nota Linda Hutcheon, l’adattamento può essere inteso come la “ripetizione con una variazione”.

Una coreografia di particolare interesse in questo senso è Letter to the World di Martha Graham creata nel 1940 e ricreata nel 1941. Dedicata ad Emily Dickinson, il lavoro suddivide la protagonista in due, con Colei Che Danza ad interpretare le parti danzate e gli assoli più articolati e Colei Che Parla a recitare parti di poesie e lettere di Dickinson. L’adattamento in questo caso quasi plasma una sua narrazione dalle poesie e vita della poeta, restituendole in danza e dando loro uno spessore particolare.

Non tutti gli adattamenti riescono col buco però. Un esempio è Woolf Works di Wayne McGregor del 2015. Ispirata a tre romanzi di Virginia Woolf, questo lavoro riesce meno di Letter a rendere la presenza della protagonista sul palco, data forse un’eccessiva insistenza sul suo legame con la morte. Si tratta di un’ottima coreografia ma di un adattamento poco riuscito.

Gli adattamenti possono anche rientrare nella stessa arte e in questo caso vengono a volte chiamati remake. Giselle di Mats Ek del 1982 è ormai un classico del genere con la trasposizione del mondo magico e crudele delle villi, presente nella versione del 1841, in quello di un manicomio. Ma, come sottolinea Ada d’Adamo, non si tratta di una parodia, bensì di una “rilettura strutturale” dove Ek entra in dialogo profondo con la tradizione.

Si potrebbe pensare, come lo si fa nel caso del cinema, che l’adattamento abbia un carattere di dipendenza e secondarietà rispetto al testo, testi o coreotesti adattati, ma non è proprio così. Non si tratta solo di appurare quanto il lavoro adattato sia rispettato, ma quanto la nuova versione faccia capire del o mettere in discussione il lavoro adattato stesso. Se, come sostiene Carolyn Steedman, citando David Carr, il concetto di narrazione rappresenta la struttura dell’esistenza umana, allora intervenire nelle narrazioni che ci circondano con gli adattamenti è fondamentale per interpretare in modo anche critico i nostri immaginari.

QUI si può ascoltare la puntata.


Per approfondire:


Coppélia, cor. Athur Saint Léon (1870).

D’Adamo, Ada, Mats Ek (Palermo: L’Epos, 2002).

Hutcheon, Linda, Teorie degli adattamenti. I percorsi delle storie fra letteratura, cinema, nuovi media, trad. G. V. di Stefano (Roma: Armando Editore, 2011).

L’Après-midi d’un faune, cor. Vaslav Nijinsky (1912).

Letter to the World, cor. Martha Graham (1940-41).

Giselle, cor. Mats Ek (1982).

Simonari, Rosella, Letter to the World: Martha Graham danza Emily Dickinson (Roma: Aracne, 2015).

Steedman, Carolyn, Dust (Manchester: Manchester University Press, 2001).

Woolf Works, cor. Wayne McGregor (2015).

 

2 ottobre 2020

giovedì 24 settembre 2020

Passo pausa


Comunicare attraverso i social è la prassi per molte persone. Ma che tipo di comunicazione è? Se io taggo un mio contatto e quello non risponde, cosa vuol dire? Che non è interessato? Che è arrabbiato? Se gli mando un messaggio privato e non risponde neanche lì, cosa sta accadendo? La risposta non è univoca e potrebbe aver a che fare con molte questioni. Magari è uscito dal social e io non me ne sono accorta. Come nota Jacopo Franchi, i social sono fatti di “solitudini connesse” in cui la comunicazione muta spesso in non comunicazione.

Nella coreografia Il Cortile accade qualcosa di simile. Presentato nel 1985, è il frutto della creazione collettiva dei Sosta Palmizi e mostra il rapporto non rapporto fra sei personaggi che si susseguono sulla scena. Alcuni elementi ricordano la motion di Alwin Nikolais che fu maestro di Carolyn Carlson, a sua volta loro insegnante prima che formassero la compagnia. C’è infatti un lavoro profondo sulle articolazioni in movimento.

I sei personaggi sembrano non capirsi o non essere in grado di comunicare e spesso eseguono dei passi a cui si succedono delle pause durante le quali a volte si osservano l’un l’altro. Il palco cortile è riconducibile ad un territorio alienante con la polvere ad alzarsi ogni volta che i movimenti si fanno più concitati. Oggi parleremmo di distrazione da notifiche dei social, il nostro cortile virtuale, dove si rincorrono i ‘mi piace’ e si risponde al messaggio vocale di turno.

I critici hanno ritrovato un’atmosfera beckettiana ne Il Cortile, paragonandolo, secondo Angela Bozzaotra, a May B di Maguy Marin che è ispirato proprio a Samuel Beckett. E si ritrova una vena dell’assurdo nella dinamica del pezzo, come quando i quattro danzatori maschi stanno stesi per terra arrancando quasi in cerca di un movimento decisivo che li sblocchi da quella sorta di stasi.

Passo passo pausa...qual è la stasi che stiamo vivendo? Sembra assurdo (ecco), ma i rapporti così intesi sono dei non rapporti. Certo Franchi stesso ammette che con i social si condivide una conoscenza collettiva preziosa, ma questa conoscenza è mediata dall’algoritmo, è a lui che parliamo per primo quando mettiamo un ‘mi piace’ e il suo potere sta plasmando le nostre vite.

Il poster della coreografia rende particolarmente bene il senso di incomunicabilità insensata di oggi come di allora con un muro, una scala e un gallo dalla cresta rossa a fare capolino. Il senso claustrofobico del muro non viene alleggerito dalla scala in quanto sembra appoggiata lì senza un motivo apparente e la testa del gallo, oltre che rappresentare l’elemento cromatico del poster, segna forse l’assurdità di questo spazio, di questa nostra esistenza mediata. Cosa resta? Movimenti ipnotici e pose stralunate. Forse ha ragione Raffaella Giordano quando dice “la voce è rimasta dentro / rimane solo più l’eco”.

QUI si può ascoltare la puntata.


Per approfondire:

Bozzaotra, Angela, “Un ‘intermondo’ tra interprete e spettatore. ‘Il cortile’ dei Sosta Palmizi”, in Sciami, nuovoteatromadeinitaly.sciami.com, 2016, https://nuovoteatromadeinitaly.sciami.com/sosta-palmizi-il-cortile-1985/angela-bozzaotra-intermondo-cortile-sosta-palmizi-sciami-2015/ (consultato il 31 agosto 2020).

Franchi, Jacopo, Solitudini connesse – Sprofondare nei social media (Milano: Agenzia X, 2019).

Giordano, Raffaella, “Indispensabie a sé”, in Ugo Volli (a cura di), Sosta Palmizi allo specchio, Teatro Festival, n.3, aprile 1986, https://nuovoteatromadeinitaly.sciami.com/sosta-palmizi-il-cortile-1985/giordano-indispensabile-a-se-sosta-palmizi-cortile-teatro-festival-aprile-1986/ (consultato il 31 agosto 2020).

Il Cortile, cor. Sosta Palmizi (1985).

 

24 settembre 2020

giovedì 17 settembre 2020

Bambola e ballerina

 

Esiste tutta una tradizione di bambole ballerine che rimandano a ideali di grazia e dolcezza. L’associazione bambola-ballerina ha una sua tradizione anche nella storia della danza, per esempio con l’effervescente balletto Coppélia del 1870. Ispirato alla novella gotica “L’uomo della sabbia” di Ernst Theodor Amadeus Hoffmann del 1816, fu coreografato da Arthur Saint Léon, musicato da Léo Delibes e scritto da Charles Nuttier. Al contrario dei toni cupi della novella, il balletto è famoso per il suo tono comico e il carisma della protagonista femminile, Swanilda.

Racconta la storia della bambola Coppélia che sembra una donna reale e attrae l’attenzione di Franz, fidanzato di Swanilda. Quando egli si introduce nel laboratorio del dr. Coppelius creatore della bambola, viene imprigionato, ma Swanilda accorre in suo aiuto, ingannando Coppelius fingendo di essere Coppélia. Alla fine Swanilda libera Franz e lo sposa con la benedizione della comunità.

La scena clou del balletto è quando la ballerina che interpreta Swanilda finge di essere Coppélia, danzando una danza spagnola e una scozzese, ribellandosi man mano a Coppelius. Secondo Sally Banes, in questa scena Swanilda porta avanti una sorta di “rivoluzione femminista”, dato che “la sua danza incarna metaforicamente un movimento emancipatorio che passa da totale restrizione (…) ad autonomia”.

La questione bambola-ballerina non investe solamente aspetti tematici, ma anche formali. Infatti l’interesse per bambole, automi e meccanismi a orologeria, si sviluppa proprio nel periodo in cui la tecnica della danza classica viene codificata, ossia nei secoli XVII e XVIII. Secondo Gwen Berger e Nicole Plett, “il corpo della ballerina rappresentava sia una costruzione estrema della femminilità idealizzata che una potenziale metafora per la perfezione meccanica”. Il primo automa di forma umana in grado di scrivere e parlare fu creato nel 1773 da Pierre e Henri-Louis Jaquet-Drotz e creò, come nota Ian Grant, un dibattito sugli automi in qualità di “artefatti meccanici”.

Opere come Frankenstein di Mary Shelley e la novella di Hoffmann riflettono lo stato di ansia che la questione automi produsse all’epoca, mentre Coppélia rappresenta un cambiamento di percezione che vede detta questione in termini di progresso. Per questo forse Coppélia poteva solo essere una parodia dell’ansia che gli automi produssero in passato, con la ballerina ad interpretare una bambola che si libera della sua staticità tramite una tecnica precisa come un orologio, un automa nel movimento e non nel contenuto.

QUI si può ascoltare la puntata.


Per approfondire:


Banes, Sally, “The Romantic Ballet: La Sylphide, Giselle, Coppélia”, in Dancing Women: Female Bodies on Stage (London: Routledge, 1998), pp. 12-41.

Berger, Gwen, Plett, Nicole, “Uncanny Women and Anxious Masters - Reading Coppélia Against Freud”, in Moving Words - Re-Writing Dance, ed. Gay Morris (London: Routledge, 1996), pp. 159-179.

Coppélia, cor. Arthur Saint Léon (1870).

Grant, Ian, “Bilogical Technologies: the History of Automata”, in New Media: a Critical Introduction, ed. Martin Lister (London: Routledge, 2003), pp. 314-350.

Hoffmann, E.T.A., L’uomo della sabbia e altri racconti, trad. Gerardo Fraccari (Milano: Mondadori, 1987).

Simonari, Rosella, “From Gothic to Comic: Coppélia, A Glittering Dance Adaptation of E.T.A. Hoffmann’s ‘The Sandman’”, A Dance History, 20 febbraio 2016, http://adancehistory.blogspot.com/2016/02/from-gothic-to-comic-coppelia.html (consultato il 13 settembre 2020).

 

17 settembre 2020