Nel
numero di novembre-dicembre 2018 di Danza&Danza, l’editoriale
di Maria Luisa Buzzi pone una questione spinosa, quella della
critica. “La critica è morta” dice Buzzi tra virgolette, “non
ha più ragione di essere”. Queste affermazioni riportano ad un
dibattito del 2015, nato nelle pagine del giornale statunitense The Atlantic, ad opera di Madison Mainwaring che analizza la
progressiva riduzione dei critici di danza sulle pagine di giornali
cartacei come Time Out New York e The San Francisco Chronicle.
Citando
il critico di danza del New Yorker, Joan Acocella, Mainwaring
sottolinea come “la danza sia stata l’arte meno rispettata (…)
sin dal quarto secolo quando la chiesa (…) bandì la danza dalle
cerimonie religiose pubbliche” (Acocella in Mainwaring 2015). La
danza ha a che fare con la fisicità dei corpi ed è associata alla
sessualità e alla femminilità, aspetti che hanno contribuito alla
poca attenzione ad essa dedicata.
Mainwaring
continua facendo un piccolo excursus storico. John Martin fu nominato
critico di danza dal New York Times nel lontano 1927 e i suoi
articoli sono stati strumentali per lo sviluppo della modern dance. A
questo proposito aggiungerei che nel 1933 il musicista Louis Horst
fondò il Dance Observer, un periodico che dedicò molto spazio alla
nascente modern dance. Il rapporto fra i critici di allora e
coreografi come Martha Graham non era sempre idilliaco, ma era
fondato su una sorta di reciprocità, una conversazione fatta
attraverso le lenti della scrittura e della pratica artistica. Quando
Graham creò la prima versione di Letter to the World nel 1940,
Martin la criticò aspramente e non è incauto pensare che Graham
modificò di molto la coreografia iniziale anche grazie a quella critica.
Inoltre, al quel tempo, i coreografi stessi prendevano la parola e
scrivevano articoli sul loro lavoro, aspetto che, secondo la studiosa
Gay Morris, “dimostra fino a che punto (…) cercavano di plasmare
la ricezione del loro lavoro” (Morris 2006: xix).
Negli
anni Sessanta e Settanta, con il “dance boom” e la rivoluzione
sessuale, “la percezione della fisicità” (Mainwaring, 2015) mutò
e la danza ebbe un’attenzione da parte della stampa che non aveva
mai avuto prima. “Scrivere di danza contribuisce alla sua
legittimazione” (Mainwaring, 2015), ma farlo non è semplice,
occorre sviluppare una particolare sensibilità nell’osservare i
corpi in movimento e ‘tradurre’ ciò che si vede in parole
scritte. Non esiste un unico modo per farlo e nel corso dei decenni
vari metodi sono stati approntati. Brian McCormick, per esempio, ha
delineato uno schema suddividendo la struttura di una recensione in
‘descrizione’, ‘analisi formale’, ‘interpretazione’ e
‘giudizio’ (McCormick, 2006), senza che si debba per forza
seguire quest’ordine.
"
I
critici di danza sono delle banche di memoria” (Mainwaring, 2015)
di valore inestimabile, ci raccontano quello che hanno visto con i
loro occhi, con il loro sguardo consapevole di quello che è il
linguaggio della danza e la sua storia. In questo senso, forniscono
delle coordinate fondamentali, inserendo la coreografia in questione
in un contesto più ampio, come dice Acocella in un suo articolo
(Acocella, 1992). La registrazione video è un altro tassello, ma non
“cattura” veramente “ciò che accade in situ”. Come studiosa,
quando mi trovo davanti ad una coreografia da analizzare, uno dei
primi passi che faccio è quello di rintracciare le recensioni dei
critici. Interessante è, per esempio, l’analisi che Elena
Cervellati fa degli scritti di Théophile Gautier sulla danza.
Scrittore prolifico e intellettuale poliedrico, Gautier si occupò
anche della stesura dei libretti di danza, il più celebre dei quali
è Giselle (1841): “è nella danza che [Gautier] (…) trova
l’ambito in cui meglio esercitare le proprie capacità critiche e
ideologiche” (Cervellati: 2007, 10). E il suo libretto, assieme ad
un suo celebre articolo sul balletto delle villi, è una delle poche
fonti rimaste su quella Giselle.
Mainwaring
ascrive la ‘morte della critica’ ad una altro fattore importante:
il fatto che la cultura di massa ha sorpassato la cultura ‘alta’
per quanto concerne la “discussione critica” (Mainwaring, 2015).
Non è chiaro se intenda con questo lo spazio virtuale della rete,
laddove chiunque, in teoria, può prendere la parola e scrivere la
propria opinione. In questo senso, una risposta al pezzo di
Mainwaring è giunta proprio dal web, da parte di Christine Jowers
che su Danceusa.org, critica la giornalista del The Atlantic (il
cui articolo è comunque pubblicato online!) per non aver preso in
considerazione il fenomeno della critica di danza sul web, che consta
di numerosi siti fatti di giornalisti preparati e dedicati. Nomina il
suo sito, The Dance Enthusiast, come anche ArtBurstMiami e altri,
sottolineando come il modo di parlare di danza stia cambiando, “forse
il mondo della danza ha bisogno di aprirsi a nuovi modi di pensare,
scrivere, sostenere [la danza] e interagire con i danzatori, il
pubblico e i mezzi di comunicazione” (Jowers, 2015).
Buzzi
nel suo editoriale non fa riferimento alla dicotomia fra critica sul
cartaceo e sul web (Danza&Danza si avvale anche di un sito web
piuttosto dinamico), ma si concentra sulla delegittimazione del
critico e fa anche lei riferimento alla cultura di massa che
considera i critici “come entità ‘con la puzza sotto il naso’,
lontana dalla gente comune” (Buzzi, 2018: 5). Il critico letterario
Northrop Frye, sosteneva che la critica è “una parte essenziale”
(Frye, 1990: 3) dell’educazione, della cultura o dello studio delle
materie umanistiche. Il critico non è un parassita, il cui lavoro si
fonda sul lavoro di qualcun altro. Di parere diverso è Alessandro
Piperno, secondo cui “il buon recensore sa di essere un parassita”
(Piperno, 2015). Piperno avviò, col suo pezzo, un dibattito proprio
sulla presunta morte del critico. Eppure,
guardando un’opera d’arte da un punto di vista più ampio, di
nuovo, prendendo in esame il contesto in cui viene creata, possiamo
notare che chi la crea si ispira ad altri lavori e non per questo
viene definito parassitario. Cosa resterebbe della pittura di Picasso
senza l’arte definita come africana? Picasso stesso è famoso per
una citazione che recita, “i buoni artisti copiano, i grandi
artisti rubano”.
Il
critico, continua Frye, non è un artista mancato, in quanto anche la
critica è una forma d’arte, “una struttura di pensiero e
conoscenza che esiste di per se stessa, con una certa indipendenza
dall’arte con la quale ha a che fare” (Frye, 1990: 5). Il gusto
del pubblico non è qualcosa di ‘naturale’ o innato, ma è frutto
di conoscenze più o meno approfondite che il critico contribuisce ad
arricchire e, per certi aspetti, a guidare. Il pubblico che sceglie
di evitare la critica, insiste Frye, “brutalizza le arti e perde la
propria memoria culturale” (Frye, 1990: 4).
Citando
A.O.Scott, Buzzi afferma che “idealmente la società non avrebbe
bisogno di critici ‘salvo nella misura in cui tutti dovremmo
aspirare a diventarlo’ per spostarci dalle nostre zone di confort”
(Buzzi, 2018: 5). E internet ha forse contribuito a sviluppare questa
aspirazione. Riprendendo Jowers, con internet è cambiato il modo di
comunicare e forse anche di fare critica. Ciò non toglie che in
molti casi, online e offline, ci si trovi davanti a quelli che Buzzi
chiama “pseudo-critici” (Buzzi, 2018: 5), ossia i critici poco
preparati. Pochi anni fa, per esempio, quando la Martha Graham Dance
Company è venuta in Italia, un servizio televisivo parlò del suo
stile di danza facendo riferimento alla danza sulle punte,
un’affermazione totalmente priva di fondamento, dato che la tecnica
Graham si pratica a piedi nudi e se, nelle coreografie, si indossano
delle scarpette (come nel caso di Appalachian Spring) non sono certo
scarpette da punta.
Come
fare per distinguere i critici dagli pseudo-critici? I primi di
solito scrivono per testate specializzate o giornali di tiratura
nazionale, ma non sempre è così. La capacità di discernere fra
critica di qualità e pseudo-critica è probabilmente una delle
questioni che ci dovremmo porre, un compito che il pubblico dovrebbe
imparare a gestire. E il critico, dal canto suo, dovrebbe fare la sua
parte ‘smascherando’ gli pseudo-critici e fare della danza, non
solo un’arte capace di preservare e tramandare la propria memoria,
ma anche scevra delle colossali imprecisioni, come quella sopra
indicata, che tendono ad impoverirla e a darne un’immagine confusa.
MATERIALE CITATO E NON LINKATO
Maria Luisa Buzzi, "Contro il confort del pensiero di massa: instillare dubbi", Danza&Danza, n. 283, novembre-dicembre 2018, p. 5.
Elena Cervellati, Théophile Gautier e la danza. La rivelazione del corpo nel balletto del XIX secolo (Bologna: CLUEB, 2007).
Northrop Frye, Anatomy of Criticism. Four Essays (London: Penguin, 1990).
Gay Morris, A Game for Dancers. Performing Modernism in the Postwar Years, 1945-1960 (Middletown: Wesleyan University Press, 2006).
29 novembre 2018