sabato 21 dicembre 2013

Carmen e la danza a Jesi (Ancona)


Lezione spettacolo a cura di Rosella Simonari      
Parte di Atelier 68/ter, 26-27-28 dicembre 2013

Lezione: Rosella Simonari
Danza: Michela Fossà
Sonorizzazione: [Nooz] 


La storia di Carmen è inesorabilmente legata al mondo della danza. Carmen infatti è una gitana esperta nel danzare e sedurre attraverso il suo corpo. Sin dalla novella di Prosper Mérimée (1845), che ha dato vita al mito, il fascino di Carmen risiede nel suo sapersi muovere e danzare. Nell’opera di Georges Bizet (1875) la mezzo-soprano che interpreta Carmen è chiamata a danzare all’inizio del secondo atto. Da allora la sua figura ha oltrepassato i confini della letteratura e dell’opera per approdare nel mondo del cinema e della danza. In particolare nella storia della danza coreografi del calibro di Roland Petit, Antonio Gades e Mats Ek si sono cimentati con il mito della gitana spagnola, ognuno fornendo la propria interpretazione, deformando e reinventando il mito. Il rapporto con la danza è poi a doppio taglio in quanto facile preda di una visione stereotipata che tende a reificare il corpo femminile riducendolo a oggetto di piacere.

La lezione spettacolo è stata ideata per sondare il rapporto fra il mito di Carmen e la danza nella novella, nell’opera e nelle sopramenzionate coreografie con una riflessione finale sulla relazione fra donna danza e corpo. È stata pensata per far interagire tre linguaggi nello stesso spazio e tempo: la parola, gestita dalla storica della danza Rosella Simonari, il corpo in movimento, danzato dalla danzatrice di flamenco Michela Fossà e il suono miscelato da dj [Nooz].

QUANDO: 27 dicembre 2013

DOVE: Sca Tnt, Via Gallodoro 68/ter

ORA: 21:00 (ma se si vuole arrivare prima si può gustare la buonissima apericena a cura del Tnt)

INFO: 3286443996


21 dicembre 2013

mercoledì 20 novembre 2013

danza, mito e precarietà: due lezioni presso l'Università di Camerino (Macerata)


Il 26 novembre sarò presso la scuola di architettura e design "Eduardo Vittoria" di Ascoli Piceno (sede distaccata dell'Università di Camerino) a tenere due lezioni all'interno del corso di laurea in disegno industriale e ambientale tenuto dalla professoressa Marta Magagnini, corso dedicato al tema del mito. Per questo, in qualità di storica della danza, parlerò del rapporto fra danza e mito nel lavoro di Martha Graham con l'analisi della coreografia "Errand into the Maze" e, in qualità di fumettista autodidatta, parlerò della mia striscia a fumetti "The p.s. (la studiosa precaria)" alla quale ho dedicato un altro blog, qui il link.


20 novembre 2013

giovedì 24 ottobre 2013

Incontro con Rebecca Murgi

Incontro con Rebecca Murgi

Che cos’è la danza contemporanea? Che cosa la differenzia per esempio dall’hip hop o dalla salsa? È solo una questione di tecnica del movimento? O c’è dell’altro? Stasera, 24 ottobre, alle ore 21.00, all’interno della serie di eventi Atelier 68/ter, intervisterò Rebecca Murgi, esponente della danza contemporanea marchigiana, nazionale e internazionale, dove si rifletterà su queste domande. Con Murgi si ripercorrerà la sua formazione ed esperienza come danzatrice e coreografa e si parlerà del corso che tiene a Jesi, presso gli spazi del TNT, con una lezione aperta eseguita dalle ragazze che si sono già iscritte al corso.


Quando: 24 ottobre 2013, ore 21:00  
Dove: Spazio Comune Autogestito TNT, Via Gallodoro 68/ter, Jesi (Ancona)

24 ottobre 2013

mercoledì 16 ottobre 2013

Degas e il balletto a Jesi (Ancona)

Lezione spettacolo a cura di Rosella Simonari      
Parte di Atelier 68/ter, 18-26 ottobre 2013

Lezione: Rosella Simonari
Danza: Cristina Squartecchia
Tromba: David Uncini

Edgar Degas (1834-1917) è pittore e scultore francese abilissimo nel rendere il movimento. E più della metà delle sue opere sono dedicate al balletto, tipo di danza particolarmente celebre al suo tempo. Egli osserva e disegna innumerevoli schizzi delle ballerine mentre eseguono esercizi e passi di danza. Il suo sguardo non è quasi mai volto a ritrarle al centro della scena, ma mentre si riposano, mentre si allenano alla sbarra, mentre si preparano ad andare in scena. Egli mostra che la danza è, al di là dell’atmosfera eterea e sognante che la caratterizza, un lavoro che richiede dedizione e disciplina. Il suo è uno sguardo obliquo, indiscreto e finissimo nel rendere questo linguaggio, tanto da superare in bravura la nascente arte della fotografia che a fine Ottocento non aveva ancora la tecnologia che ha oggi per dare l’idea del corpo in movimento.
  
La lezione spettacolo, ideata dalla storica della danza Rosella Simonari, intende presentare la figura di Degas pittore di ballerine analizzando alcune delle sue opere più celebri e inserendolo nel contesto del milieu culturale del suo tempo. A rendere vivi i quadri e le sculture di Degas saranno delle sezioni danzate dalla ballerina Cristina Squartecchia su musiche del trombettista jazz David Uncini. 
Quando: 23 ottobre 2013, ore 21:00  

Dove: Spazio Comune Autogestito TNT, Via Gallodoro 68/ter, Jesi (Ancona)

Info: 3286443996


16 ottobre 2013

lunedì 7 ottobre 2013

Apparizioni e sparizioni


Apparizioni e sparizioni – Hexperimenta
Progetto di residenza
Mole Vanvitelliana, Ancona, 2-11 agosto 2013, ore 17-21

Hexperimenta all'ingresso della Mole, foto R.S.
La danza è un’arte che si muove nel tempo e nello spazio. Per quanto concerne il secondo di solito si va a vedere uno spettacolo in un teatro, che è uno spazio ben definito, sia per quanto riguarda la delimitazione perimetrica a disposizione di coreografi e danzatori che per la suddivisione dello spazio in modo piuttosto organizzato e strutturato con il pubblico in platea e sui palchi e gli artisti sul palco. Già dagli anni Sessanta questa suddivisione viene messa in discussione dagli esponenti statunitensi della postmodern dance che uscirono dai teatri per sperimentare una forma diversa di fare danza all’interno degli spazi urbani. Trisha Brown, per esempio, nel 1970 ideò la radicale performance Man Walking Down the Side of a Building, dove un danzatore collegato a delle funi percorreva camminando il muro laterale di un palazzo.

Come cambia il rapporto fra danza, spazio e pubblico in casi come questo? A questo proposito, lo scorso agosto vi è stato un interessante progetto di residenza ad opera dell’Associazione Hexperimenta di Stefania Zepponi, presso la Mole Vanvitelliana di Ancona. Si tratta di Apparizioni e sparizioni, progetto che per nove giorni ha visto quattro danzatrici, Clementina Verrocchio, Silvia Manoni, Deborah Montefalcone e Zepponi stessa, studiare gli spazi architettonici della Mole per costruire dei percorsi coreografici in loco. Il percorso si è avvalso della collaborazione dell’architetto Anna Paola Quargentan che ha fatto parlare i muri della Mole, dando loro un contesto, un senso rispetto a quello che erano e che sono.

La Mole Vanvitelliana fu progettata dall’architetto Luigi Vanvitelli e costruita fra il 1733 e il 1743. Ha acquisito solo di recente il presente nome, in quanto prima era conosciuta come il Lazzaretto, dato che era il luogo preposto per il deposito di merci e e lo stazionare di persone che venivano da fuori e che dovevano essere sottoposte ad una quarantena. Serviva inoltre a difendere il porto. È costruito su di un’isola artificiale ed ha la forma di un pentagono con un cortile interno che ospita un tempietto dedicato a San Rocco, il santo protettore dei malati di peste.

Hexperimenta ha individuato degli spazi specifici dove mettere in pratica il progetto, come l’ingresso che è costituito da un corridoio che collega l’entrata della Mole con il cortile interno; l’ampio canalone delimitato dalle mura esterne da un lato e da quelle interne dall’altro; ed infine lo spazio ad esso collegato, spazio caratterizzato da nicchie che confluiscono in un cancello che conduce fuori dalla Mole. Fuori, a poca distanza vi è il viale con i portici, che, come Quargentan mi suggerisce, rappresentano un contrappunto moderno a quello che sono le nicchie dentro le mura.
Hexperimenta nelle nicchie della Mole, foto R.S.

Il progetto si è distinto per il metodo oltre che per l’idea in sé, in quanto Hexperimenta si è sin da subito aperta al pubblico creando ogni giorno uno spazio di riflessione e discussione completo di lavagna, libri, fra i quali spiccano il corposo Fenomenologia della percezione di Maurice Merleau-Ponty e L’Arte del movimento di Rudolf Laban, e delle spiritosissime sedie di cartone messe a disposizione da Kshop. La fotografa Viviana Falcioni ha seguito il progetto in ogni sua fase documentandolo con foto che giocano con la struttura architettonica della Mole e i corpi in movimento delle danzatrici. La pittrice Roberta Conti ha creato delle opere suggestive ispirate alle coreografie man mano che prendevano forma.

Corpi vestiti di bianco (architetto e fotografa incluse), in quanto si è scelto un colore che non contrastasse troppo con i colori neutri delle mura.

E poi il titolo, Apparizioni e sparizioni, che rimanda proprio al contrasto e/o interazione fra lo spazio architettonico e il corpo umano. Il corpo in alcuni momenti scompare e in altri viene esaltato dagli spazi che lo circonda. E lo si è visto nelle coreografie che sono state presentate il giorno 11 agosto. In quella lungo l’ingresso le danzatrici camminano su e giù, camminano dietro o di fianco ad un passante, ne prendono per mano un altro (a me è successo così) portandolo a sedersi alla fine del corridoio, si accostano al muro ed eseguono dei movimenti a terra. Si muovono in due o singolarmente o tutte insieme (tre in tutto, dato che Montefalcone non è potuta intervenire per problemi di salute), rispondendo comunque al movimento dei passanti, al loro non movimento (soprattutto quando il pubblico si rende conto di poter essere pubblico e non ‘solo’ passante e quindi si ferma a guardare) oltre che alla struttura dell’ingresso che presenta uno spazio che si sviluppa in lunghezza. Il camminare è collegato proprio a questo elemento, alla locomozione lungo una linea. E questa locomozione viene sottolineata in modo raffinatissimo dal flauto traverso di Marta Senesi, le cui note sembrano dare ulteriore voce sognante al luogo già di per sé evocativo.

Nel secondo spazio le danzatrici si appoggiano alle grandi mura quasi come a voler saggiare un po’ della loro solidità, poi eseguono una coreografia che le distanzia l'una dall'altra per poi riunirle lungo la stessa linea. Il pubblico in questo caso è chiamato a restare fermo e a guardare da lontano le tre figure in bianco muoversi. La prospettiva è quindi panoramica e l’atmosfera più simile a quella di un teatro rispetto alla sezione precedente in cui lo spazio limitato e l’interazione col pubblico creano un clima intimistico condito dall’ironia.

Ad aprire le terza sezione vi è “Il muro”, poesia nata dalla penna di Olivia Falà, una passante che è rimasta affascinata dalla performance, poesia che Verrocchio scrive su di un grande foglio di carta. Gli ultimi versi mostrano il risuonare dei corpi e del luogo: “Di questo muro silente/senza luogo e senza momento/di mattone in mattone/ il rumore sento/di crepa in crepa /trovo lo spazio e il tempo”. Il pubblico è quindi divenuto anche qui parte integrante dello spettacolo. Segue poi la fase danzata lungo le nicchie che alterna linee e curve con il ‘liberatorio’ fuoriuscire dal cancello per sparire oltre il parcheggio antistante. A fornire qui la musica è Alessandro Cintioli, del gruppo musicale Contradamerla, che ha espressamente composto un pezzo per questo progetto. Il pubblico in quest’ultimo momento è chiamato a seguire le danzatrici, a spostarsi, a guardare le nicchie della Mole animarsi di nuovi significati proprio grazie al movimento.

Il progetto è divenuto anche una bellissima mostra allestita dentro gli spazi della Mole.


7 ottobre 2013

mercoledì 11 settembre 2013

Che cos'è la storia culturale

Alessandro Arcangeli, Che cos’è la storia culturale (Roma: Carocci, 2007).


Una bella domanda, quella che si pone Alessandro Arcangeli nella sua concisa guida. Sì perché la storia culturale non è un campo di indagine ben definibile. Potremmo forse denominarla (Arcangeli stesso alla fine non dà una definizione precisa) una branca della storia che si concentra su aspetti che alla storia tradizionalmente intesa sfuggono, come la storia di un fiume o di una valle, come anche di pratiche tipiche della cultura popolare come il carnevale. Si allontana dalle grandi narrazioni della storia, come le battaglie o i cambiamenti politico-economici per analizzare aspetti anche legati alla quotidianità.

Il termine ‘cultura’ ha un peso preponderante ed è il risultato del lavoro di varie scuole di pensiero che si sono occupate e si occupano di storia culturale, a cominciare dalla Germania per continuare con la Francia, dove il termine è stato spesso soppiantato da alternative come ‘civilisation’. Punto di riferimento per entrambe e non solo è stato poi Interpretazione di culture (1973), lo studio dell’antropologo Glifford Geertz  per il quale la cultura è una ragnatela di significati e che la sua  “analisi non sia anzitutto una scienza sperimentale in cerca di leggi, ma una scienza interpretativa in cerca di significato”.

Cultura non significa quindi “un modello di conoscenza centrato sul riscontro di regolarità”, ma una serie di significati dai quali partire per capire ciò che siamo e come siamo. E proprio la contaminazione con discipline come l’antropologia ha portato la storia culturale ad interrogarsi sulle proprie metodologie e a dare un senso più ampio al termine stesso di cultura.

Su questo crinale si è sviluppato un modo particolare di fare storia che ha arricchito molto anche il panorama della storia culturale, la microstoria, che si concentra sull’analisi dei dettagli e non più sugli eventi di grande scala, come dimostra Il formaggio e i vermi (1976) di Carlo Ginsburg, che si occupa del processo ad un mugnaio del Cinquecento da parte dell’Inquisizione e mostra come il rapporto fra cultura alta e bassa fosse allora molto più articolato di quello che la storia classicamente intesa ci aveva fatto intendere. 

Arcangeli traccia poi un panorama storico del processo di studi che ha portato alla formazione di questa disciplina che ha poco più di vent’anni di età. Nomi importanti a questo proposito sono Gianbattista Vico, Jacob Burckhardt, Aby Warburg, Johan Huizinga, Karl Marx e Antonio Gramsci. Nel Novecento inoltre vi è la cosiddetta “svolta linguistica” che porta ad operare una riflessione sulla presunta oggettività del discorso storiografico a partire dal come lo storico racconta la storia. In questo senso il testo Metahistory (1978) di Hayden White rappresenta una svolta e un punto di riferimento.

Il volumetto prosegue con dei capitoli dedicati ad ulteriori studi sui quali la storia culturale affonda le proprie radici, come la storia delle idee proposta da Arthur O. Lovejoy, la storia delle mentalità con figure come Lucien Febvre e il significativo ruolo dei simboli oltre che il concetto di rappresentazione promossi da filosofi come Gilbert Durant.

Infine questa breve ma esaustiva carrellata si chiude con un capitolo dedicato alla metafora spaziale con esempi come quello della “storia dal basso”, ossia di “una rivalutazione dell’esperienza, della testimonianza e del punto di vista dei gruppi sociali subalterni e marginali”. All’interno di questa categoria si inserisce la storia di genere, “che, a partire dai primi passi mossi dalla storia delle donne, ha messo in discussione convinzioni e abitudini inveterate nella professione storica”, la storia del corpo, della cultura materiale e dei consumi, così come anche la storia dei mezzi di  comunicazione a cominciare dal libro e dalla trasformazione e rilevanza che la lettura ha avuto nel corso dei secoli. Arcangeli conclude parlando delle fonti iconografiche e di come una loro lettura critica sia ormai parte integrante della storia culturale.


11 settembre 2013

lunedì 26 agosto 2013

Burattini, robot e la poetica del confronto a Civitanova Danza

Burattini, robot e la poetica del confronto a Civitanova Danza

Teatro Annibal Caro, Civitanova Alta

Teatro Rossini, Teatro Cecchetti, Civitanova Marche

20 luglio 2013

Civitanova Danza, il festival capisaldo della danza contemporanea e non solo nelle Marche e in Italia, quest'anno compie vent’anni. Enrico Cecchetti, a cui il festival è dedicato, sarebbe stato contento dei risultati raggiunti dalla sua città di origine. Cecchetti, oltre ad essere stato un ballerino apprezzatissimo per le sue doti tecniche, fu anche un maestro di danza che per molti anni insegnò presso il Teatro Mariinskij di San Pietroburgo. Fra i suoi allievi vi furono ballerini di fama internazionale come Anna Pavlova, Vaclav Nijinskij, Leonide Massine, Ninette de Valois, Marie Rambert e George Balanchine.
Virgilio Sieni, foto Sailko.


Gli appuntamenti del festival di quest’anno sono stati contrassegnati da incontri con esperti del settore, esibizioni delle scuole di danza della città, un campus con docenti della Scuola di Ballo della Scala e dell’Opéra de Paris, oltre che dagli spettacoli veri e propri. Spettacoli che sono stati raggruppati in due maratone con più offerte, fra le quali spiccava l’attesa nuova coreografia di Blanca Li e la prima assoluta di Zappalà Danza, e due serate a tema unico, una, Romeo and Juliet di Aterballetto da tenersi presso l’Arena Sferisterio di Macerata (serata che però, a causa del taglio dei fondi FUS - Fondo Unico dello Spettacolo - per la Regione Marche, è stata annullata) e l’altra, La notte della stella con Svetlana Zakharova, al Teatro Rossini.


Il 20 luglio, in particolare, è iniziato con un incontro dedicato al tema “Emergere/essere giovani” con Francesca Bernabini di Federdanza, Selina Bassini di Cantieri Danza e Virgilio Sieni, coreosofo fra i più affermati del panorama nazionale, nonché, da quest’anno, direttore artistico della Biennale Danza di Venezia. Se le prime due relatrici hanno fornito, pur con i loro differenti punti di vista, una prospettiva di carattere tecnico-pratico su come un giovane danzatore possa muoversi in Italia per emergere, Sieni, da affabulatore d’altri tempi qual è, ha deliziato il pubblico con la sua prospettiva dal didentro e con il suo linguaggio visionario. Secondo il coreosofo fiorentino un’importanza fondamentale riveste il rapporto col pubblico che è riconducibile ad un rapporto con l’alterità e altrettanto importante è la figura dell’insegnante di danza che dovrebbe quasi trasformarsi in un maestro di bottega come ne esistevano una volta, per recuperare i significati profondi del fare danza nel senso più ampio del termine, significati che egli denomina con un’espressione molto evocativa, “fessurazioni spirituali”.


Locadina dello spettacolo Pinocchio, foto Virgilio Sieni.
A questo dibattito, moderato dal direttore artistico dell’Amat, Gilberto Santini, è seguito un momento danzante delle scuole di danza della città, in Piazza XX Settembre. Poi via, si è corso verso l’inizio della maratona su di un bus navetta che ci ha condotti a Civitanova Alta dove ci attendeva l’assolo Pinocchio di Virgilio Sieni, spettacolo che doveva andare in scena per ultimo ma che è stato invece anticipato. Protagonista è un danzatore non vedente, Giuseppe Comuniello, che impersona un Pinocchio “leggermente diverso”, come recita il sottotitolo dell’opera. 


Leggermente diverso non soltanto perché è un non vedente a danzare, ma anche e soprattutto perché Sieni trasforma la celebre fiaba di Collodi in un percorso “sulla nascita e la crescita dell’uomo alla ricerca dell’origine dei sensi”. E Pinocchio, come si evince dal programma di sala, è anche Geppetto che “è un non vedente che da alcuni anni si prepara alla danza”. Quindi il livello del racconto si sposa poi con un livello che va oltre il racconto stesso e che si ispira forse alla vita di Comuniello in un gioco ad incastri lieve e soave. 


Il palco è pieno di oggetti ideati da Antonio Gatto fra cui un pannello sonorizzato sul quale Comuniello farà dei disegni. Comuniello indossa un paio di orecchie da asino ed un naso lungo. Danza una danza di gesti a volte minuti ed eleganti, altre volte più decisi e marcati; in un momento sul proscenio si accarezza il braccio leggerissimamente ad occhi chiusi per poi eseguire dei giri a scatti e andare a terra. Durante la coreografia su di uno schermo in fondo appaiono delle scritte dirette al pubblico, “il centro è più o meno qui”, “la cassa è più o meno lì”, “la direzione verso il centro è più o meno questa” per concludersi con “venite dietro a me e non abbiate paura”. Queste scritte sembrano evidenziare la percezione forse imprecisa dello spazio da parte del protagonista, ma sembrano anche sottolineare che il suo mondo è un bel mondo, un mondo che egli ci invita a scoprire senza avere timore. 


La sensazione è che le varie sezioni della coreografia, il programma di sala ne enumera quattro, siano incompiute e che la coesione cinetica del pezzo sia un po’ lacunosa rispetto a quello che promette. Comuniello interagisce inoltre direttamente con il pubblico in un paio di occasioni, la prima chiamando quattro volontari solo per farsi sorreggere mentre lancia dei petali rossi e mentre ha una specie di crisi epilettica, la seconda chiamando una persona che lo aiuti a legarsi dei mattoncini sotto i piedi, a mo’ di scarpe. In questo secondo caso l’interazione è più riuscita dato che il nostro Pinocchio/Geppetto veste poi questa persona con un k-way e conclude la danza caricandosela sulle spalle. 


Siamo in ritardo, dobbiamo tornare a Civitanova Marche, ci avviciniamo al punto dove il bus navetta dovrebbe aspettarci, ma il bus non c’è in quanto era pieno e dovrà fare un altro viaggio per venire a prenderci. Il tempo dell’attesa diviene il tempo dello scambio di opinioni che l’assolo ci ha procurato, forse un po’ di delusione, ma anche la sensazione che Sieni intenda esplorare qualcosa che vada oltre il fare danza classicamente inteso, qualcosa che ci riconduca al significato dei gesti e alla loro poesia.


Una scena di Robot, foto di Magali Bragard.
La storia del burattino di Collodi evoca associazioni con altri automi antropomorfi che popolano il mondo della danza, come Coppélia (1870) di Arthur Saint-Léon e Petrouchka (1911) di Michel Fokine, come a mostrare il legame sottile che unisce il mondo della danza al mondo artificiale degli automi, nella ricerca della perfezione di un movimento o di una posa.
 

E Robot, che va in scena al Teatro Rossini, si ricollega idealmente proprio a questa tematica. L'autrice è Blanca Li, coreosofa spagnola trapiantata in Francia. È un salto quantico rispetto alla delicatezza dell’opera di Sieni. È un lavoro di gruppo dove i danzatori dal fisico scultoreo si muovono spesso ad un ritmo incalzante. Vi sono degli oggetti meccanici sullo sfondo che scopriamo presto essere impianti musicali del gruppo Maywa Denki che di volta in volta si animano per accompagnare la danza. 


Blanca Li non è nuova a questo argomento data la sua esperienza come coreografa di video musicali come quello celebre dei Daft Punk, Around the World (1997), dove figuravano quattro danzatori nel ruolo di robot, ma in questo caso Li ci propone dei robot veri, piccole creature umanoidi, i NAO, prodotti dalla Aldebaran Robotics, che si confrontano sul palco con la complessa articolazione del movimento eseguita dagli otto danzatori della compagnia. Si tratta di un esperimento interessante ma solo parzialmente riuscito, dato che i NAO spesso cadono in avanti spezzando un po’ la magia della loro presenza in scena. Inoltre Li sceglie di renderne uno protagonista di una scenetta di seduzione piuttosto ridondante e stereotipata. I danzatori sono molto bravi nell’eseguire la partitura coreografica, anche se a volte ricadono in uno stile un po’ rétro. Le scenografie di Pierre Attrait e le luci di Jacques Chatlet sono magnifiche visioni che contribuiscono con efficacia a creare l’atmosfera quasi cibernetica dell’opera.



Masako Matsushita in De Visu in Situ Motus, foto Luigi Gasparroni.
Con gli occhi ricolmi di robottini e di sfavillanti coreografie, ci accingiamo, un po’ stanchi ad andare verso il Teatro Cecchetti dove si tiene l’ultimo appuntamento della serata, De Visu in Situ Motus di Masako Matsushita. E di nuovo ci troviamo di fronte ad un cambiamento di atmosfera, dove sedici persone di varia struttura fisica sono allineate in fondo al piccolo palco, indossando dei jeans e delle magliette colorate. Sono tutti scalzi e di schiena. Sul palco poi arriva Gabriella Biancotto, vestita di un top e pantaloni blu e presto la raggiunge Masako Matsushita, vestita in modo simile ma con abiti di colore grigio chiaro. Le due donne entrano in relazione fra loro, a terra si avvinghiano in un abbraccio che le porta anche a spostarsi come se fossero un unico corpo. Il tema trattato è quello del confronto e viene delineato in modo originale e stimolante. Nel frattempo le sedici persone in fila si tolgono la maglietta e iniziano ad incurvare la schiena molto lentamente, creando un sublime contrappunto. La coreografia si sviluppa ulteriormente dando vita a nuove immagini suggestive come quella che vede Matsushita prendere delle lunghe strisce di stoffa nera dalla posizione dove si trovano le sedici persone allineate che man mano se ne vanno. Forse l’opera necessita di una messa a punto, di un’ulteriore tensione verso la sintesi, ma devo dire che è il finale ideale per una maratona di danza di alto livello. 


26 agosto 2013

lunedì 19 agosto 2013

Du Liebst Mich Zu Viel di e con Helen Cerina


Disconnessione! Du Liebst Mich Zu Viel di e con Helen Cerina

Teatro Lauro Rossi, Macerata, 23 aprile 2013, ore 11

Helen Cerina in Du Liebst Mich Zu Viel, foto di Dario Bonazza.
 La disconnessione. Questo il termine-chiave alla base del lavoro di Helen Cerina, Du Liebst Mich Zu Viel, dove interagisce in modo superbo con suono, spazio e vari oggetti presenti sul palco. E il senso di disconnessione per il pubblico inizia ancor prima dell’inizio, con il titolo in tedesco che trasporta il pezzo in un angolo remoto della mente, almeno per chi non conosce questa lingua. Soprattutto se pensiamo che, in questa specifica occasione, il pubblico è rappresentato principalmente da studenti delle superiori specializzati nel campo della moda, studenti che non sono abituati a vedere opere di danza contemporanea. 


Il titolo è comunque interessante in rapporto alla parola-chiave di cui sopra, “mi ami troppo” e rimanda forse all’immagine romantica dell’amore, quella alla Romeo e Giulietta per intenderci. Ma qui di nuovo avviene un’altra disconnessione: man mano che la coreografia si sviluppa, constatiamo che non vi è alcun movimento che ricordi una tragica storia d’amore. Tantomeno dagli oggetti presenti in scena: un registratore per cassette portatile, un microfono, una cassa, un pannello rettangolare con superficie luminosa. Inoltre non vi è nessuna musica. L’atmosfera è rarefatta e sembra organizzata in modo approssimativo, ma non è così e ben presto scopriamo che proprio la dinamica creata da Cerina sul palco costruisce un percorso percettivo e cinetico che contribuisce a dar senso allo spazio spoglio come anche agli oggetti che lo popolano.


La coreografia si apre con Cerina che giace sul palco sulla sinistra. Indossa un’ampia t-shirt bianca e un paio di pantaloni da tuta neri. Nella chiacchierata dopo la performance, Cerina spiega che non era sua intenzione attirare l’attenzione sul costume e voleva indossare i colori bianco e nero. Inoltre le piaceva come la t-shirt si muoveva a seguito dei suoi movimenti. Il costume è semplice, neutro, ma frutto di una scelta oculata anche rispetto a come cambia o arricchisce il movimento stesso.


Cerina poi si alza ed esegue una camminata laterale con un movimento di braccia circolare a cui segue un movimento disarticolato delle gambe. È come se il corpo fosse pianificato per andare in una direzione e una delle gambe nella direzione opposta. Non vi è traccia alcuna di passi legati alla danza classica.


Il pezzo inscena una interazione particolare con la musica. Cerina di solito evita di utilizzare la musica nel suo lavoro. La usa a volte durante le prove per elaborare un certo ritmo per le sezioni di ogni parte della coreografia, ma poi non la utilizza nello spettacolo vero e proprio e danza in silenzio. In Du Liebst Mich Zu Viel, la giovane coreosofa addirittura produce dei suoni con la voce al microfono e con il microfono percosso sul corpo. Vi è un meraviglioso senso di frammentazione e incompiutezza mentre si muove da una sezione all’altra, da un oggetto all’altro. Non le interessa fare errori, così che l’elemento dell’imprevedibilità che caratterizza ogni performance, non la disturba affatto.


Oltretutto l’assenza di musica le permette di percepire più acutamente la risposta del pubblico, risposta che, ogni volta in modo diverso, attiva una reazione da parte sua. Se vi sono degli sbadigli o una grande concentrazione, Cerina lo percepisce e questo può portare al cambiamento di un passo o del ritmo della danza. Questo ovviamente dipende anche da come sta lei, da come si sente quel giorno, se è più o meno stanca, più o meno concentrata.


Il momento più poetico e toccante e forse l’unico che potremmo ricondurre al titolo di questa coreografia, è quando Cerina lancia dei petali di rosa rossi sulla propria testa e corpo, mentre il piccolo registratore riproduce il suono di alcuni spari. Non vi è pathos nella sua interpretazione, ma il contrasto fra suono e immagine è forte e porta a pensare all’amore come ad un’esperienza crudele e comunque dolorosa. 


Cerina collega l’idea dell’amore a quella di arte nel senso che un coreografo e danzatore crea un lavoro come una sorta di dono di amore per il pubblico, a prescindere dalla reazione del pubblico stesso.Il controllo che Cerina ha sul proprio corpo è sbalorditivo e la sua visione coreutica una ventata di aria fresca nel panorama della danza locale e non solo!


Nota – Questa performance fa parte della piattaforma Matilde, un progetto della Regione Marche e Amat. È stata prodotta da Goue in collaborazione con The Place, London, Operaestate Festival, Dansateliers, Dansescenen, Dance Week Festival Zagreb, Certamen Coreografico de Madrid, Reiss Arti Performative, Daghda Dance Company, Residenza Nottenera.


19 agosto 2013

giovedì 15 agosto 2013

Stare in piedi

Forse la vita è una questione di posture. Come ci relazioniamo al nostro corpo e come esso sta al mondo e nel mondo. La schiena dritta, la schiena piegata, la schiena di lato. Ricordo che da piccola mia madre temeva per la mia schiena, temeva mi venisse la scoliosi, chissà che bambina sarei stata con la scoliosi.


Martha Graham, foto di Soichi Sunami.
Secondo la coreosofa statunitense Martha Graham, il termine ‘postura’ rimanda a “quell’istante di apparente immobilità di quando il corpo è bilanciato per l’azione più  intensa e impercettibile, il corpo nel momento della sua efficienza potenzialmente più grande” (Graham, 1941: 181). E una di queste posture è quella che, a quanto pare, ci contraddistingue come esseri umani, la posizione eretta. Lo stare in piedi su due gambe invece che su gambe e braccia. 


Questa postura si collega allo stare immobili, ma, come suggerisce Graham, lo stare immobile è solo apparente, in quanto stare fermi e stare fermi in piedi comporta il mantenimento di un equilibrio. Graham di nuovo ci fornisce degli spunti interessanti, “come in qualsiasi altro edificio architettonico, il corpo viene mantenuto eretto dall’equilibrio. L’equilibrio è una sottile relazione che viene mantenuta lungo le varie sezioni del corpo” (Graham, 1941: 182-183).

Lo studioso statunitense Scott Abbott parla dello stare in piedi da un punto di vista metaforico ed, elencando termini collegati alla radice ‘sta’ (costantemente, insistentemente, ostinatamente, circostanze, esistenza, sistematico, resistere) sottolinea come “la metafora dello stare in piedi determini il nostro concetto di tempo e spazio; plasmi il nostro modo di intendere l’esistenza e l’estasi (...). In breve, ogni volta che gli esseri umani hanno prestato attenzione scientifica o artistica allo status di esseri umani, lo hanno fatto attraverso la metafora dello stare in piedi” (Abbott, 2011).


Ne la Sagra della primavera del coreosofo russo Vaclav Nijinskij, la danzatrice che interpreta il ruolo dell’Eletta, nel secondo atto, deve restare immobile in piedi, ginocchia piegate, mani sulle ginocchia e testa di lato, per circa dieci minuti. Dopo di che danzerà il suo assolo finale. Cosa significa questo? Che tensione si deve creare nel corpo per mantenere uno stadio di equilibrio di questo tipo?


Erdem Gündüz, "l'uomo in piedi".
Stare fermi, mantenere un equilibrio, posizionarsi nel tempo e nello spazio, resistere. È a questo ultimo termine che mi aggancio per trattare di una particolare forma di resistenza che, in due contesti piuttosto differenti, ha trovato nell’atto dello stare in piedi la sua affermazione più forte, potente e sovversiva.


Il primo esempio è quello del coreosofo turco Erdem Gündüz che ha messo in atto una protesta singolare e di forte impatto attraverso l'atto dello stare in piedi. Dalla fine di maggio ad Istanbul si sono create delle proteste spontanee per contestare la decisione del governo di creare un nuovo centro commerciale dove ora è il Taskim Gezi Park. Il 17 giugno Gündüz è andato a Gezi Park ed è rimasto in piedi immobile e in silenzio per circa cinque ore guardano l'immagine di Mustafa Kemal Atatürk, il fondatore della Turchia moderna, immagine che si staglia su di un palazzo che dà sul parco. Le foto mostrano Gündüz con i capelli legati dietro la nuca, una camicia bianca e un paio di pantaloni neri, le mani in tasca e lo zaino fermo ai suoi piedi. Questa forma di protesta si è subito propagata per il paese e sui social network, conferendo al coreosofo l'hashtag su twitter di #duranadam, "uomo in piedi" in turco.

Pochi giorni dopo, il 25 giugno nello Stato del Texas, la senatrice Wendy Davis è rimasta in piedi per dieci ore in un atto di filibustering (procedura parlamentare che permette di discutere un progetto di legge ad oltranza causando anche la posticipazione del voto), sabotando di fatto una legge che avrebbe limitato il diritto all'aborto in Texas. Davis si è preaprata coscienziosamente, indossando delle scarpe da ginnastica e mangiando uno snack prima di iniziare a parlare. Il voto è stato fatto dopo la mezzanotte e per questo dichiarato nullo. Il progetto di legge è poi stato approvato, ma per quel giorno Davis ha messo in atto un tipo di resistenza davanti alla quale il Senato nulla ha potuto fare per contrastarla.
Questi due atti hanno un precedessore illustre nello studente, anch'egli in camicia bianca e pantaloni neri che il 5 giugno del 1989, a seguito del massacro di studenti, intellettuali e operai uccisi dalle forze militari mentre protestavano a Pechino in Piazza Tiananmen, si è messo in piedi fermo davanti ad una fila di carroarmati, divenendo il simbolo delle proteste di Pechino.

Wendy Davis durante il suo filibustering.
Lo stare fermi in piedi è un atto di affermazione forte, come suggerisce Abbott. Ma quello che questi atti di protesta ci dicono è che lo stare fermi in piedi in luoghi particolarmente significativi come Gezi Park, la sede del Senato dello Stato del Texas e Piazza Tiananmen può rappresentare anche un modo inusuale e potente di manifestare il proprio dissenso, un modo che destabilizza e indebolisce soprattutto a livello simbolico il sistema. E lavorare sul piano simbolico è uno dei passi fondamentali per operare un cambiamento.
E allora tutti in piedi!


(Nota: le traduzioni dall'inglese sono a mia cura.)


TESTI CITATI E NON LINKATI

Scott Abbott, "Standing: Random Thoughts", in Standing as Metaphor: Homo Erectus in the Culture of Homo Sapiens, http://onstanding.wordpress.com/2011/12/30/standing-random-thoughts/, 30 dicembre 2011 (consultato 15 agosto 2013) 

Martha Graham, "A modern dancer's primer for action", in Dance - A Basic Educational Technique, ed. Frederick Rand Rogers (New York: MacMillan Company, 1941), pp. 178-187.


15 agosto 2013