giovedì 29 ottobre 2020

Carmen danza


Cosa significa danzare uno spirito libero? Quale tecnica si può utilizzare? L’esempio che viene in mente è la figura di Carmen, la gitana spagnola la cui sensualità porta gli uomini alla perdizione e il cui spirito indipendente la porta a sacrificare la propria vita per la libertà. Innamorato di lei, il soldato José va in carcere e uccide diventando un fuorilegge a causa sua. Ma Carmen è una donna libera e, di fronte a questo, José, geloso e possessivo, la uccide.

Carmen è nata dalla penna di Prosper Mérimée nel 1845 ed è interessante notare come il fatto che danzi è presente sin dalla novella. José le chiede esplicitamente di danzare per lui. Danzare è parte della sua abilità nel sedurre. La danza che caratterizza Carmen nella novella viene definita ‘romalis’, un tipo di danza gitana che si è poi trasformata in flamenco. Nel 1875 parte della storia viene ripresa da Georges Bizet nell’omonima opera e la danza figura soprattutto nell’aria che apre il secondo atto.

Nel momento in cui la storia viene adattata in danza, però, lo spirito stesso di Carmen, non solo la sua abilità nel sedurre, viene veicolato tramite differenti tecniche come la danza classica e il flamenco.

Per quanto riguarda la prima nel 1949 Roland Petit propone una versione che viene definita scandalosa per la parte dedicata alla scena d’amore fra José e Carmen. La sintesi narrativa è magistrale e il balletto, costituito da un unico atto in cinque scene, è caratterizzato da una Carmen che sembra più una diva da music-hall che una gitana di Spagna. Nonostante questo, in più di un’occasione, la coreografia presenta una versione originale della danza flamenca, per esempio con un zapateado [il battere ritmato dei piedi] eseguito sulle punte dalla carismatica Zizi Jeanmaire nei panni di Carmen. Di forte impatto lo scontro finale fra Carmen e José, dove i due ‘duellano’ a colpi di battements, salti e testa contro testa in un crescendo teso e ineluttabile.

Riguardo al secondo nel 1983 il film di Carlos Saura con coreografie di Antonio Gades segna uno spartiacque in quanto mette in discussione il mito di Carmen in sé, rivelandolo come costruzione culturale creata dal Romanticismo francese e perpetrata acriticamente da molti dei successivi adattamenti. Questo viene fatto attraverso l’escamotage della trama che vede il coreografo Antonio, interpretato da Gades stesso, alle prese con le prove della sua compagnia per allestire una versione flamenca di Carmen. Le danze di gruppo, quali quella tutta femminile della tabacalera, sono fenomenali come pure i passi a due e gli assoli. Inoltre lo stile essenziale e privo di enfasi di Gades permette una visione del flamenco che va aldilà degli stereotipi. Per Gades Carmen è una donna del popolo, una donna forte e indipendente e il suo flamenco forse rappresenta il modo migliore per esprimerlo.

Carmen danza e continuerà a danzare libera!

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Per approfondire:

Carmen, musica Georges Bizet (1875).

Carmen, cor. Roland Petit (1949).

Carmen, dir. Carlos Saura, cor. Antonio Gades (1983).

Mérimée, Prosper, Carmen [1845] (Milano: Mondadori, 2002).

Simonari, Rosella, “Bringing Carmen Back to Spain: Antonio Gades’s Flamenco Dance in Carlos Saura’s Choereofilm”, Dance Research, Vol 26, n. 2, Winter 2008, pp. 189-203.

 

29 ottobre 2020

giovedì 22 ottobre 2020

Tutù prismatico

 


Il tutù è immancabilmente legato alla magica immagine della ballerina. Secondo Judith Chazin-Bennahum ha contribuito a cambiare il modo di muoversi e il modo stesso di vedere e percepire la ballerina. Quando nel secondo atto di Giselle, la protagonista viene trasformata in wili dalla regina Myrtha, esegue una serie di piroette e salti che il tutù bianco evidenzia ed esalta.

Il tutù indossato da uomini spesso ha risvolti comici. Hunt di Tero Saarinen si distingue per l’uso di una gonna-tutù che di comico non ha nulla. Anzi. Creato dalla costumista della compagnia, Erika Turunen, decostruisce la struttura a raggiera del tutù classico, utilizzando pannelli di tessuto e vari altri materiali cuciti insieme. È lungo fino ai piedi e viene indossato da Saarinen direttamente sul palco in un momento quasi rituale.

Hunt è una coreografia del 2002, creata su commissione di Carolyn Carlson, l’allora direttrice della Biennale di Venezia Danza. Si tratta di un adattamento-remake del Sacre du printemps di Vaslav Nijinsky, che venne presentato per la prima volta nel 1913 con grande clamore e che venne ripreso da numerosi coreografi del Novecento e non solo, come Pina Bausch e Martha Graham. Hunt, a differenza dell’opera di Nijinsky, è un assolo che reinterpreta il tema del sacrificio in modo originale.

Per questa coreografia, Saarinen ha pensato a diverse questioni, come l’invecchiamento, la perdita di un caro amico e il costante afflusso di informazioni che riceviamo ogni giorno dai media. Queste riflessioni lo hanno portato a sviluppare l’idea di cacciatore e preda allo stesso tempo (hunt significa cacciare, andare a caccia). Sul palco un cerchio formato da dei riflettori circonda il danzatore suggerendo l’immagine di un’arena dove avviene una lotta. Contro chi combatte questa figura? E che ruolo ha il tutù?

Uno dei momenti clou della coreografia si ha quando Saarinen si ferma come pietrificato a alza parti del tutù che, assieme al suo corpo, diviene schermo per una serie di proiezioni da parte dell’artista multimediale Marita Liulia. L’effetto è prismatico e allucinogeno. Ecco esemplificato il bombardamento di informazioni a cui siamo costretti ogni giorno, bombardamento che non ci permette di elaborare criticamente quanto ci viene dato.

Guardando attentamente le immagini proiettate si comprende poi che si tratta di Saarinen, una scelta che porta a pensare al fatto che la lotta è contro se stessi. Il tutù prismatico si mostra quindi come specchio indagatore del nostro io, che ci interroga su quanto di noi siamo disposti a sacrificare, rivelare o semplicemente dar via.

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Per approfondire:


Autio, Iris, Westeward Ho! Wavelengths Hunt, Tero Saarinen Company, 2006.

Chazin-Bennahum, Judith, The Lure of Perfection – Fashion and Ballet, 1780-1830 (New York: Routledge, 2005).

Hunt, cor. Tero Saarinen (2002).

Sacre du printemps, cor. Vaslav Nijinsky (1913).

Simonari, Rosella, “Moving fabric – Costumes and Movement in Tero Saarinen’s Dances”, novembre 2009, ballet-dance.com (non più online).

 

22 ottobre 2020

giovedì 15 ottobre 2020

Danzare dentro la città

 


Secondo Wolf Bukowski nelle nostre città si sta vivendo una guerra “contro poveri, migranti, movimenti di protesta e marginalità sociali”, in nome del decoro e della sicurezza, categorie senza senso perché disancorate rispetto al sociale così che alla fine quasi contano più le fioriere che “le vite umane”. Mi chiedo cosa penserebbero i promotori del decoro e della sicurezza di Palermo Palermo, stück di Pina Bausch del 1989.

Esempio delle coreografie che Bausch ha dedicato al viaggio, si apre con un momento shock: la caduta di un muro di mattoni che rimanda alla caduta del muro di Berlino anche se Bausch è stata reticente al riguardo. Questo incipit rimanda anche ai lavori di ristrutturazione e demolizione che avvengono nelle città, nonché alle barriere architettoniche di cui si parla ma poco si fa. Quello che è interessante è che i mattoni del muro restano in scena e rappresentano parte integrante della scenografia che consta di oggetti, materiali e liquidi.

Insieme costituiscono una sorta di spazzatura dell’anima in quanto gli interpreti interagiscono di volta in volta con essi, inscenando, come sottolinea Roberto Giambrone, “la condizione femminile, le contraddizioni della società contemporanea, i rapporti conflittuali, la difficoltà di comunicare, la solitudine, lo smarrimento, la malinconia e un’indefinibile nostalgia”.

Non mancano frasi coreografiche ripetute, come è tipico di Bausch e neanche scenette comiche, come quella della donna con gli spaghetti sottobraccio che si rivolge al pubblico con fare aggressivo, tirandone fuori uno ad uno. Giambrone nota inoltre come “i danzatori compiano azioni che tradiscono il bisogno di solidarietà, di complicità nel pericolo”, come quando spesso un danzatore solleva o sostiene un altro.

Alcuni critici hanno notato come emerga però un’atmosfera desolata e violenta. C’è per esempio una scena in cui una donna stesa a terra viene legata mani e piedi. Si alza e si muove a fatica per poi raccontare una storia di suicidio agghiacciante.

Sono questi i risultati del metodo Bausch, secondo cui ogni stück o pezzo, come chiama le sue opere, viene costruito assieme agli interpreti ai quali vengono rivolte delle domande atte a far scaturire gesti e frasi coreografiche, “da cucire poi orizzontalmente”, secondo Elisa Vaccarino, “senza un ordinamento gerarchico, in pezzi assemblati per la scena, cioè per un teatro dell’esperienza denso e trasparente insieme”.

Alla domanda su cosa sia uno stück, Bausch risponde: “è una piccola parte di quello che sento e che ho dentro di me. (…) All’inizio non c’è niente, solo un sentimento, follemente preciso; poi emergono, a tastoni, molte, molte piccole storie; nel periodo delle domande, ognuno risponde liberamente con movimenti o con parole a ciò che chiedo; (…) raccolgo appunti su tutto, poi seleziono le proposte, scartando la maggior parte di ciò che è venuto fuori, per arrivare a una forma che assomigli all’idea che me n’ero fatta”.

In Palermo Palermo quindi si danza la città, ma anche e soprattutto dentro la città, dentro le sue emozioni e le sue vibrazioni più forti, senza soglie di sicurezza o decoro.

 

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Per approfondire:

Bausch, Pina, in “Colloquio con Pina Bausch”, in Elisa Vaccarino, Altre scene, altre danze (Torino: Einaudi, 1991).

Bukowski, Wolf, La buona educazione degli oppressi – Piccola storia del decoro (Roma: Alegre, 2019).

Giambrone, Roberto, Pina Bausch – Le coreografie del viaggio (Macerata: Ephemeria, 2008).

Vaccarino, Elisa, Altre scene, altre danze (Torino: Einaudi, 1991).

 

15 ottobre 2020

venerdì 9 ottobre 2020

Le Scissure del covid – come moltiplicando i nostri spazi interni ci salveremo dalla gabbia del covid

Foto Roberto Frey.
 William Kennick, in un articolo apparso nel 1958 su “Mind”, ci pone un interessante paradosso: “Supponiamo che una persona si trovi davanti all’ingresso di un grande magazzino nel quale siano state accumulate opere d’arte di ogni genere insieme ad altri oggetti di uso comune e che qualcuno le dica: vai all’interno e tira fuori tutte le opere d’arte, e solo esse”.

È subito lampante la quantità di riflessioni che questa provocazione ci mette di fronte: quando si può dire che un determinato fenomeno è arte, e in cosa l’arte assolve la sua funzione, sono solo due dei quesiti che ci possiamo porre.

La quarantena, e più in generale il fenomeno covid, ci pone davanti a simili ragionamenti: in questo enorme magazzino che è stato l’isolamento sociale, l’arte e la produzione artistica sono stati gli spesso bistrattati protagonisti. I balconi di ogni città si sono riempiti di cantanti, musicisti, attori e performer improvvisati. Presi singolarmente, questi fenomeni sono ben lontani dal poter essere considerati espressioni artistiche. Cosi come, prese singolarmente, le creazioni artistiche di un paziente psichiatrico difficilmente possono essere considerate opere d’arte. È solo quando Dubuffet riconosce l’importanza di queste opere a livello sociale e terapeutico, che assumono dignità artistica sotto il nome di Art Brut. Questo potrebbe quindi portarci a domandare se il fenomeno delle espressioni performative dalle terrazze, prese nella loro dimensione collettiva, giungeranno mai un giorno ad acquisire una qualche forma di riconoscimento accademico, ben contestualizzato ovviamente nel tempo e nello spazio, e quindi se si potrà mai aprire una discussione attorno all’utilità di espressioni artistiche tali.

Una frase che ha fatto scalpore in quarantena è stata quella del presidente del consiglio Conte, che in occasione del decreto rilancio ha citato i lavoratori del settore spettacolo ricordandoli come “i nostri artisti, che ci fanno tanto divertire”. È evidente che questa espressione, detta in modo bonario, non ha pretesa di esaurire le funzioni del mondo dell’arte in maniera esclusivamente ludica e di intrattenimento. È però un dato come nel periodo di quarantena, i live streaming di attori, performer e musicisti siano proliferati e come effettivamente siano stati utili nell’assolvere l’arduo compito di mantenere alto il morale di tutti coloro che per mesi sono stati confinati in casa, spesso in situazioni di solitudine e difficoltà economiche.
Foto Alessandro Menga.

A questi due fenomeni artistici – le esibizioni spontanee dai veroni, e le performance online dei lavoratori del mondo dello spettacolo - si contrappone una terza via: quella di tutti coloro che, pur avendo una professione che si attua di fronte a un pubblico hanno scelto di vivere l’esperienza dell’isolamento sociale senza produrre nulla ne mostrarsi sotto i riflettori domestici, ma usando questo tempo per riflettere e ampliare il proprio immaginario interno, creando spazio di riflessione dove spazio non ce ne era invece di rispondere al confinamento con un’esplosione verso l’esterno.

Il progetto “Le scissure del covid” nasce da persone che han scelto questa ultima via. Da una parte, Giorgia Sestilli, bibliotecaria di Casa delle Culture di Ancona, che ha digitalizzato il Fondo Marinelli, andando quindi a portare nel web contenuti che stonano con il mondo online: volumi, opere e manoscritti, importanti testimonianze storiche che risalgono all’800 legate alla storia di Ancona.

Dall’altra le altre due anime di questo progetto, Stefania Zepponi - danzatrice e coreografa - e Rosella Simonari - storica della danza; insieme hanno sviluppato una riflessione intorno al concetto di distanziamento sociale creando un progetto articolato che non va a criticare le misure di contenimento, bensì si interroga su di esse, analizzando attraverso la lente della danza concetti come lo spazio, la prossimità, le corrispondenze tra corpi e che assieme al contributo di Giorgia vanno a toccare il cuore di questa performance: come l’arte e l’artista diventino fondamentali solo se toccati dallo sguardo dei fruitori.

Foto Alessandro Menga.

Il primo momento di questo ciclo di tre appuntamenti (avvenuto nella suggestiva cornice del tempio di san Rocco, nella Mole Vanvitelliana di Ancona) si compone di una riflessione-dialogo guidato da Stefania e Rosella in cui il pubblico viene chiamato a condividere le proprie suggestioni riguardo a come l’esperienza della quarantena abbia influenzato la percezione di distanze e misure, le corrispondenze tra persone e la fruizione dell’ambiente che ci circonda. Ma non si limita a questo: il pubblico viene guidato in un brain storming basato non esclusivamente sulla logica ma in maniera preponderante sulle intuizioni liriche dei partecipanti, che forniscono parole legate a concetti dell’area semantica della quarantena come il distanziamento, il rapporto con altri corpi nello spazio e l’emotività che il porre l’attenzione su questi concetti provoca. Su cinque di queste parole, sorteggiate in maniera casuale, viene chiesto al pubblico di esprimere un gesto. Grazie a questi gesti viene poi montata una Line (forma espressiva ideata da Pina Bausch basata su gesti del quotidiano in sequenza danzati su un camminare ritmico nello spazio), gesti che diventano forme significanti della quarantena nella sua trasposizione performativa. Questa sequenza diviene definizione stessa di come l’arte e l’espressione fisica possa divenire catartica e aiutare il fruitore nell’elaborare momenti di vita difficili o semplicemente nuovi: il movimento diviene forma d’arte: come avrebbe detto Hegel, esistenza sensibile dell’idea, messa in opera della verità.

Foto Ennio Pennacchioni.

La fine della line coincide fisicamente con l’inizio dell’ultima tappa di questo percorso, all’interno della Mole Vanvitelliana. La sala è allestita per consentire la fruizione del fondo Marinelli, preziosa raccolta di volumi storici digitalizzata da Giorgia. Sul lato distale rispetto all’ingresso è posizionato infatti un tablet da cui si può accedere al catalogo online. All’interno della sala si respira un’atmosfera molto diversa rispetto a quella appena trascorsa durante la line: se gli spazi aperti e ampi della corte interna della Mole permettono infatti di poter rispettare le misure di prevenzione e distanziamento conservando tuttavia un certo grado di libertà spaziale, all’interno della sala la fila per arrivare al tablet impone un rigido collocamento predefinito. La stanza in cui si snoda la fila è divisa a metà da un cordone di sicurezza, oltre cui Giorgia e Stefania si trovano in maniera apparentemente casuale. In realtà non stan così le cose: le due performer, nel momento in cui si accorgono di avere addosso lo sguardo, magari curioso, magari sbadato, di uno dei partecipanti iniziano a instaurare una relazione performativa con il pubblico, in cui la danza di Stefania e le letture di Giorgia vengono proposte in maniera del tutto inaspettata e frammentaria.

L’attenzione e il riconoscimento della platea è, effettivamente, ciò che permette all’arte di manifestarsi e essere. Questo avviene sia nella fruizione online che in presenza. Il discrimine è costituito dal fatto che in ultima analisi vi è la presenza fisica dei fruitori dell’atto performativo, e questo non può che influenzare la relazione con l’opera determinata. Le Scissure del Covid ci lascia con questo messaggio: l’esperienza online non può sostituirsi alla fruizione in loco, ma affiancarsi ad essa per moltiplicare le possibilità immaginifiche di performer, artisti e artigiani.


Giovanni Purpura



9 ottobre 2020

giovedì 8 ottobre 2020

C'era una volta la danza

 

Da adolescente, quando studiavo danza, interpretai il ruolo del lupo in un saggio di fine anno. Lo spettacolo riprendeva le favole e le metteva sottosopra. Ricordo il mio costume con dei piedi enormi e ricordo che in una scena i tre porcellini mi correvano dietro. L’effetto era molto comico e la parodia riuscita. Mi chiedo cosa pensò il pubblico. Le favole nutrono l’immaginazione di grandi e bambini e contribuiscono a plasmare le nostre soggettività. Quel lupo danzante resterà sempre con me...

La danza è presente in diversi libri per bambini sia in Italia che nel mondo angloamericano, che è quello che conosco un po’. Alcuni libri riprendono i balletti classici, come Il Lago dei cigni elegantemente illustrato da Valeria Docampo e prodotto in collaborazione con il New York City Ballet o Ella Bella Ballerina and Swan Lake di James Mayhew (in inglese). Se il primo riprende la storia originale del balletto, il secondo apporta delle modifiche in quanto la piccola Ella Bella entra direttamente nella storia.

Un altro esempio interessante è dato dai Racconti illustrati dai Balletti, dove le illustrazioni di Yvonne Gilbert Nanos optano per il colore nero della pelle dei protagonisti, in un gioco cromatico inusuale che pone varie riflessioni che spaziano dal blackface alla presenza limitata di ballerine afrodiscendenti nella danza classica.

A questo proposito vi sono alcuni testi importanti, come la serie per bambini più grandicelli, Sarò una stella di Elizabeth Barféty, in collaborazione con l’Opéra National de Paris e Campioni della danza di ieri e di oggi, una sorta di piccola enciclopedia che include anche Misty Copeland e Carlos Acosta.

In inglese c’è Dancing in the Wings di Debbie Allen, che racconta la storia di una bambina africana americana alta e dai piedi grandi che ha difficoltà ad inserirsi nella scuola dove studia. O anche Trailblazer – The Story of Ballerina Raven Wilkinson, una breve biografia illustrata che mostra le difficoltà affrontate dalla protagonista nell’abbattere la linea del colore. Infine abbiamo Firebird di Misty Copeland che propone un taglio differente nei confronti di questo tema, perché una ballerina africana americana insegna a una sua piccola allieva a danzare come il famoso Uccello di fuoco.

Da questo succinto elenco si può dedurre come molti titoli siano dedicati alla danza classica, ma ci sono delle eccezioni. Una è data dal bel libro su Isadora Duncan di Sabina Colloredo dove si mostra una Duncan bambina “con la grazia di una farfalla e la forza di un uragano”. Un’altra la si trova ne La ballerina cosmica di Linda Ferri, dove “Pepita vuole fare la ballerina, ma senza scarpette che imprigionano i piedi”. Un’altra ancora nella serie di Flora e… di Molly Idle dove la bimba Flora fa amicizia con un fenicottero o un pinguino a passi di danza. In inglese c’è il simpaticissimo Because… di Mikhail Baryshnikov, dove una nonnina ballerina mette spesso in imbarazzo suo nipote con le sue evoluzioni.

E allora ripenso al lupo danzante da me impersonato e mi convinco che la danza può essere una bellissima favola!


QUI si può ascoltare la puntata

Per approfondire:


Allen, Debbie, Nelson, Kadir, Dancing in the Wings (New York: Puffin Books, 2000).

Barféty, Elizabeth, Sarò una stella (Roma: Gallucci, 2019).

Baryshnikov, Mikhail, Radunsky, Vladimir, Because… (New York: Atheneum Books for Young Readers, 2007).

Colloredo, Sabina, Isadora Duncan (Trieste: Edizioni EL, 2006).

Copeland, Misty, Myers, Christopher, Firebird (New York: Penguin, 2014).

Davidson, Susanna, Daynes, Katie, Cullis, Megan, Gilbert Nanos, Yvonne, Racconti illustrati dai balletti (London: Usborne, 2018).

Ferri, Linda, La ballerina cosmica (Milano: Salani, 2013).

Idle, Molly, Flora e… (Roma: Gallucci, 2013).

Mayhew, James, Ella Bella Ballerina and Swan Lake (London: Orchard Books, 2011).

New York City Ballet, Docampo, Valeria, Il lago dei cigni (Milano: Terre di Mezzo, 2019).

Rossi, Sarah, Antonioni, Eleonora, Campioni della danza di ieri e di oggi (Trieste: Edizioni EL, 2018).

Schubert, Leda, Taylor III, Theodore, Trailblazer – The Story of Ballerina Raven Wilinson, foreword by Misty Copeland (New York: Little Bee Books, 2018).

 

8 ottobre 2020

venerdì 2 ottobre 2020

Adattamenti


Quando andiamo al cinema a vedere un film ispirato ad un romanzo spesso ci affrettiamo a dire, “il libro era meglio”, “il film non rende la storia” e così via. E quando andiamo a vedere la danza ispirata ad un opera letteraria cosa pensiamo? Si fa lo stesso raffronto? Forse meno, anche se diversi classici, come Coppélia e L’Après-midi d’un faune sono inesorabilmente legati ad un testo.

Qual è il rapporto fra danza e narrazione? È un rapporto complesso e sfaccettato che nel caso di trasposizione di un testo si chiama adattamento in danza. Non è semplice in quanto presuppone un modo di accostarsi alle arti in senso dialogico e comparativo. Allo stesso tempo è un percorso affascinante poiché permette di evidenziare le specificità di ogni arte e analizzare cosa l’una può dire tramite e sull’altra. Come nota Linda Hutcheon, l’adattamento può essere inteso come la “ripetizione con una variazione”.

Una coreografia di particolare interesse in questo senso è Letter to the World di Martha Graham creata nel 1940 e ricreata nel 1941. Dedicata ad Emily Dickinson, il lavoro suddivide la protagonista in due, con Colei Che Danza ad interpretare le parti danzate e gli assoli più articolati e Colei Che Parla a recitare parti di poesie e lettere di Dickinson. L’adattamento in questo caso quasi plasma una sua narrazione dalle poesie e vita della poeta, restituendole in danza e dando loro uno spessore particolare.

Non tutti gli adattamenti riescono col buco però. Un esempio è Woolf Works di Wayne McGregor del 2015. Ispirata a tre romanzi di Virginia Woolf, questo lavoro riesce meno di Letter a rendere la presenza della protagonista sul palco, data forse un’eccessiva insistenza sul suo legame con la morte. Si tratta di un’ottima coreografia ma di un adattamento poco riuscito.

Gli adattamenti possono anche rientrare nella stessa arte e in questo caso vengono a volte chiamati remake. Giselle di Mats Ek del 1982 è ormai un classico del genere con la trasposizione del mondo magico e crudele delle villi, presente nella versione del 1841, in quello di un manicomio. Ma, come sottolinea Ada d’Adamo, non si tratta di una parodia, bensì di una “rilettura strutturale” dove Ek entra in dialogo profondo con la tradizione.

Si potrebbe pensare, come lo si fa nel caso del cinema, che l’adattamento abbia un carattere di dipendenza e secondarietà rispetto al testo, testi o coreotesti adattati, ma non è proprio così. Non si tratta solo di appurare quanto il lavoro adattato sia rispettato, ma quanto la nuova versione faccia capire del o mettere in discussione il lavoro adattato stesso. Se, come sostiene Carolyn Steedman, citando David Carr, il concetto di narrazione rappresenta la struttura dell’esistenza umana, allora intervenire nelle narrazioni che ci circondano con gli adattamenti è fondamentale per interpretare in modo anche critico i nostri immaginari.

QUI si può ascoltare la puntata.


Per approfondire:


Coppélia, cor. Athur Saint Léon (1870).

D’Adamo, Ada, Mats Ek (Palermo: L’Epos, 2002).

Hutcheon, Linda, Teorie degli adattamenti. I percorsi delle storie fra letteratura, cinema, nuovi media, trad. G. V. di Stefano (Roma: Armando Editore, 2011).

L’Après-midi d’un faune, cor. Vaslav Nijinsky (1912).

Letter to the World, cor. Martha Graham (1940-41).

Giselle, cor. Mats Ek (1982).

Simonari, Rosella, Letter to the World: Martha Graham danza Emily Dickinson (Roma: Aracne, 2015).

Steedman, Carolyn, Dust (Manchester: Manchester University Press, 2001).

Woolf Works, cor. Wayne McGregor (2015).

 

2 ottobre 2020