mercoledì 27 marzo 2019

Lunga vita alle wili: l'impavida Giselle sud africana di Dada Masilo

Teatro Storchi, foto Rosella Simonari.
Il Teatro Storchi di Modena è un teatro di fine Ottocento con una bella facciata simmetrica. È una splendida serata diverse persone si stanno raggruppando per vedere l’adattamento di Giselle (2017) a firma Dada Masilo, un lavoro sul cambiamento delle simmetrie in fatto di relazioni. Il poster della performance mostra Masilo nel ruolo di Giselle mentre esegue uno slancio della gamba in alto con il piede flesso di fronte ad una danzatrice vestita di rosso con un frustino in mano. Lo slancio di Masilo è emblematico della sua versione in quanto esemplifica l’intenzione che ha di concentrarsi sulla cattiveria delle wili, la loro forza e il loro potere fatale.

La storia del balletto Giselle (1841) è la quintessenza della storia romantica di amore e perdita. La contadina Giselle si innamora di Albrecht che le nasconde di essere un nobile e di essere promesso ad un’altra nobile. Quando Giselle scopre la verità grazie a Hilarion, anche lui innamorato di lei, diviene pazza in un’epica scena drammatica e muore per rinascere poi sotto forma di wili, uno spirito notturno destinato a uccidere coloro che entrano nel suo regno nella foresta. Tuttavia, Gielle ama Albrecht e decide di salvarlo dalla morte nel momento in cui egli si avventura nella foresta per pregare alla sua tomba.

La Giselle di Masilo è la risultante di numerosi cambiamenti. In primo luogo, la sua Giselle non è così fragile e timida come quella classica. Un esempio è quando rifiuta decisa i fiori di Hilarion (Tshepo Zasekhaya). In secondo luogo, vi è lo stile secondo il quale la coreografia è organizzata: contemporaneo, mescolato al classico e africano. È un mix esplosivo di energia che dà forma a frasi di gruppo vibranti, Masilo al suo meglio, duetti lirici, soprattutto fra Giselle e Albrecht (un meraviglioso Lwando Dutyulwa) e assoli penetranti. In terzo luogo vi è la svolta fondamentale nella storia che avviene nella seconda parte: la vendetta di Giselle contro Albrecht.

Poster Giselle, foto Rosella Simonari.
Masilo lavora sui personaggi e la struttura narrativa reagendo alla società odierna, alla sua ingiustizia, violenza e discriminazione. Da qui la decisione di ambientare il lavoro in Sud Africa ispirandosi ad aspetti della sua cultura e tradizione. Il ruolo di Myrtha, la regina delle wili, è efficace e rivelatore, in questo senso. Danzato in modo potente da un danzatore, Llewellyn Mnguni, vestito come le altre wili, Myrtha è un Sangoma, ossia un guaritore sud africano, il che dà una sfumatura sacra al ruolo. Mnguni ha i capelli in lunghe treccine chiare e tiene in mano un frustino provvisto di capelli, una sorta di scopetta, che viene utilizzata nelle cerimonie e che entra in una dinamica visiva con i suoi capelli spesso agitati in aria. I suoi movimenti sono curvi e densi con il fondoschiena fuori asse. Altri elementi sud africani includono l’inno funebre cantato dopo la morte di Giselle alla fine del primo atto: “va in cielo cuore mio, perché non c’è pace su questa terra”, che viene sottolineato da una lenta processione dei membri della sua comunità.

L’elemento queer è inoltre presente nel gruppo delle wili che includono anche degli uomini. Masilo ha già parlato di omosessualità nel suo Swan Lake (2010), ma qui è come se la questione fosse inserita sottotraccia in una sorta di affermazione implicita che la rende discreta e consistente allo stesso tempo. Maschile, femminile, nessuno dei due, entrambi, come ognuno voglia...la fluidità del genere sembra essere un possibile risposta.

Dada Masilo e le altre wili in Giselle, foto Stella Olivier.
Per quanto riguarda il tema della vendetta, Masilo ha spinto la “narrazione originale”, enfatizzando il carattere “cattivo, pericoloso” delle wili. Un’anticipazione cromatica emerge nella scelta di un rosso profondo al posto del bianco fantasma per il costume delle wili e di Myrtha, “volevo che le wili sembrassero come inzuppate di sangue”, afferma Masilo, ricordando il collegamento che a volte viene fatto fra wili e vampiri. Disegnati da Songezo Mcilizeli e Nonofo Olekeng, i costumi sono costituiti da un top senza maniche con dei motivi, un’ampia gonna sotto al ginocchio e corti strati di tulle cuciti dietro. Questo contrasta con il verde vitreo delle luci di Suzette le Sueur che viene proiettato assieme alle wili.

Quando Albrecht giunge in questo luogo perturbante, danza brevemente con Giselle che è vestita di rosso, ma il tono è differente rispetto ai pas de deux che hanno interpretato prima. In questo caso Giselle è arrabbiata e lo spinge via. È l’inizio della fine, Albrecht danza con tre wili un bellissimo pas de quatre dove le wili rimangono insieme ed egli resta separato da loro, stando davanti o dietro. Presto comincia a soffrire di attacchi acuti, viene circondato dalle wili fino a quando Giselle non lo uccide con una lunga frusta. Il corpo giace senza vita, mentre le wili si muovono da destra a sinistra (Albrecht è sulla sinistra) lanciando una polvere bianca in aria. Giselle è l’ultima, le luci si abbassano, sul palco resta il defunto Albrecht. La vendetta è stata pienamente realizzata e una giustizia perversa fornita a tutte quelle donne che sono state offese dagli uomini. La sovente percussiva musica di Philip Miller e i disegni ispirati alla natura e a volte proiettati sullo sfondo di William Kentridge, completano la coreografia che porta a riflettere profondamente in termini di stile, interpreti e narrazione.



27 marzo 2019

giovedì 21 marzo 2019

Dentro il gesto della natura - Celeste di Raffaella Giordano


Raffaella Giordano in CELESTE appunti per natura, foto di Andrea Macchia.
Il braccio si muove rotondo, il passo è cadenzato, l’abito una superficie turchese, gialla e blu. Queste alcune delle istantanee che rimangono in mente (e nel corpo) dopo aver visto CELESTE appunti per natura, l’assolo di e con Raffaella Giordano, co-direttrice della compagnia di danza contemporanea Sosta Palmizi.

Sosta Palmizi è una delle compagnie storiche di danza contemporanea in Italia. Ha esordito con Il Cortile nel 1985 e, come sottolinea Ambra Senatore, è emersa quale “fenomeno di svolta” nella storia della danza italiana. CELESTE appunti per natura lancia un lazo immaginario a Il Cortile in quanto si avvale delle composizioni dello stesso musicista, Arturo Annecchino.

Creata nel 2017, la coreografia è stata riproposta domenica 17 marzo, quale ultimo spettacolo della rassegna “Invito di Sosta" (XI Edizione) che si è tenuta al Teatro Mecenate di Arezzo da Ottobre 2018 a Marzo 2019. Una “chiusura di apertura”, ha sottolineato Giorgio Rossi, co-direttore di Sosta Palmizi assieme a Giordano. L’auspicio riguarda l'intenzione di organizzare una nuova rassegna per l’autunno, ma anche e soprattutto l’assolo stesso che rappresenta l’apertura verso un ricco microcosmo di passi, gesti e immagini. Per esempio, quando Giordano si inginocchia e posa mani e testa sul palco, o quando si mette il tronco di legno provvisto di due fori (uno dei tre oggetti in scena) dietro al collo, rimandando forse alle torture medievali della gogna, è un solo attimo, ma davvero struggente. 

E poi c’è il silenzio, i gradi di silenzio alternati alle musiche e suoni (questi a cura di Lorenzo Brusci). Giordano dà spesso le spalle al pubblico e si copre il viso con le mani, fino a quando non indossa una maschera fatta di carta, un semplice foglio di carta con tre fori, due per gli occhi e uno per la bocca. Come spiega nella conversazione dopo la performance, ha lavorato molto sull’invisibile, sul senso del ritrarsi per lasciare spazio ad altro: il gesto, il ritmo pacato, il corpo in movimento, l’attraversamento dello spazio.

CELESTE appunti per natura si ispira in parte ad un libro insolito, L’estate della collina (1969) di J.A. Baker, scrittore semisconosciuto che vi “racconta e descrive unicamente la natura”. Giordano riprende l’intenzione dell’autore di rimuovere se stesso dal testo per far emergere proprio la natura. Il gesto reiterato di coprirsi il volto della coreografa danzatrice appare curioso e intimo allo stesso tempo. E nell’oggi intemperante di facebook (il libro dei visi, potremmo dire), questo gesto assume densità e si fa proposta di sguardo altro, di attenzione verso i dettagli e verso identità incarnate dove il viso è una componente fra le tante, non la direttiva social.

E infine, ma non da ultimo, l’abito, il movimento dell’abito e dentro all’abito. Dipinto da Gianmaria Sposito, ha uno scollo rotondo, maniche lunghe leggermente a sbuffo e una gonna a campana con degli spacchi laterali. Riluce, si comprime e si espande nel percorso coreografico, dialoga con i piedi nudi di Giordano e sottolinea la posizione delle mani, spesso giunte o riverse sulla stoffa. È un microcosmo nel microcosmo, anch’esso un “servizio all’azione”, la “cura” che Giordano dedica al suo lavoro.


21 marzo 2019

martedì 19 marzo 2019

Black Flags di William Forsythe e l'elefante nella stanza


Black Flags è una grande installazione che William Forsythe ha creato nel 2014 per uno dei suoi progetti denominati Choreographic Objects. Forsythe ha rivoluzionato il linguaggio della danza sin dalla fine degli anni Ottanta, con il suo stile radicale e decostruttivo nei confronti del balletto. Nel 2005 ha spinto la sua creatività ancora più oltre facendosi domande come, “è possibile per la coreografia generare autonome espressioni dei suoi principi, un oggetto coreografico, senza il corpo?” (Forsythe, senza data). Il risultato sono stati i Choreographic Objects, una serie di installazioni impegnative che potevano distinguersi per grandezza, materiale e struttura.


Black Flags è uno di questi, è gigante ed è fatto di due bracci robotici che tengono e muovono due bandiere nere. Il tessuto scuro e grande di ogni bandiera si muove a volte in unisono con l’altra, altre volte secondo una direzione o angolo differenti, “c’è una distribuzione di forze davvero unica” dice Forsythe, lodando la “bellezza e precisione” (Forsythe, 2017) di questi oggetti. Il rumore dei robot in azione è l’unica ‘musica’ del pezzo.

Non ho visto questa installazione dal vivo, ma ho sentito un senso profondo di spaesamento perturbante guardando il video della performance e ho iniziato a pensare al perché. La prima cosa che mi è venuta in mente sono gli sbandieratori italiani, artisti che muovono le bandiere in varie direzioni e in aria in composizioni acrobatiche. Non è chiara la loro origine, ma oggigiorno ci sono numerosi spettacoli di ispirazione medievale che includono l’esibizione degli sbandieratori il cui lavoro può essere certamente visto come un tipo di coreografia. Qui un paio di esempi, il primo è una registrazione dal vivo degli sbandieratori di Lanciano, il secondo è un ritratto video degli sbandieratori di Acquapendente:



Guardando le bandiere di Forsythe e gli sbandieratori si può notare l’inquietante (Forsythe stesso usa il termine ‘inquietare’, vedi Forsythe, 2017) calma delle prime e il brio dei secondi, c’è una connessione nell’abile manipolazione delle bandiere, ma una netta differenza nella dinamica.

Lo spaesamento continua, c’è qualcosa fuori posto in questa installazione, ma ancora non so cosa sia. Poi arriva la seconda associazione, è con la bandiera anarchica, che era di colore nero verso la fine dell’Ottocento e inizio del Novecento. Resa popolare da Louise Michel in Francia negli anni Ottanta del 1800, la ritroviamo poi in altri paesi come gli Stati Uniti (afaq, 2008). Secondo Howard Ehrlich, il colore nero fu scelto per l’associazione a vari elementi:

Il nero è la sfumatura della negazione. La bandiera nera è la negazione di tutte le bandiere. È la negazione della nazionalità che mette la razza umana contro se stessa e nega l’unità dell’umanità. Il nero è uno stato d’animo di rabbia e sdegno (…). Il nero è anche il colore del lutto. (…) Il nero è anche bello. È il colore della determinazione, risolutezza, forza, un colore attraverso il quale tutti gli altri vengono chiariti e definiti. Il nero è la zona misteriosa della germinazione, fertilità, il terreno dove si alleva di nuovo la vita che si evolve sempre, si rinnova, si ricarica e riproduce se stessa nell’oscurità” (Ehrlich, citato in afaq, 2008).

Ci sto arrivando. Questo senso di spaesamento è collegato all’idea di nazione/gruppo che la bandiera incorpora. E penso alle bandiere statunitensi piantate sulla Luna nel 1969 o, andando indietro, alla bandiera nel quadro di Eugène Delacroix, La Libertà che guida il popolo (1830), dove l’allegoria della forma femminile (Warner, 1985) rappresenta l’ideale di Libertà e guida un gruppo di persone attraverso la guerra (più specificatamente si tratta della Rivoluzione di Luglio del 1830). La stessa bandiera tricolore diventerà poi la bandiera nazionale francese.

Forsythe, parlando di Black Flags, afferma che hanno lavorato duramente “per de-antropomorfizzare questi robot nelle loro azioni e abbiamo fatto tutto il possibile per rimuovere l’idea di dominio, sottomissione o scopo anche se si inserisce furtivamente dentro” (Forsythe, 2017). Non penso di essere d’accordo con questa idea. Le bandiere sono simboli molto sovraccarichi e connessi alla storia umana, la politica, la cultura e vari altri campi (c’è anche una disciplina che si occupa del loro studio, si chiama Vexillologia, dal latino ‘vexillum’, bandiera) e portano con sé segni di dominio e sottomissione. Scegliere delle bandiere per un’installazione senza entrare in relazione con questi segni significa perpetrarli in qualche modo. George Balanchine, per esempio, ha coreografato due balletti dedicati alle bandiere, Stars and Stripes (1958), per la bandiera statunitense e Union Jack (1976), per quella inglese, scegliendo un tono celebrativo e “tratti patriottici” (Balanchine Trust, nessuna data).

Trinket di William Pope.L, un’installazione del 2008 dove una gigantesca bandiera viene fatta sventolare da grossi ventilatori industriali e viene illuminata da diverse luci, è piuttosto differente in questo senso. Sembra una bandiera degli Stati Uniti ma non lo è in quanto Pope.L ha aggiunto una stella, che è un piccolo dettaglio in grado di scompaginarne l’aspetto simbolico. In modo simile, il titolo, che significa ‘ninnolo’ e, in questo caso, fa riferimento ad una spilla (magari a forma di bandiera), si pone in forte contrasto con la maestosità del simbolo della bandiera, “quando si parla di cose grandi, usate parole piccole” dice (Pope.L, 2015).


Christopher Knight riassume il lavoro come segue:
La promessa di uguaglianza del simbolismo della bandiera si comprende facilmente, ma ciò che rende la scultura grande è la sua profondità stratificata. Più difficile da rappresentare è il simbolo del potere, la cui fonte è controintuitiva: il simbolo è dinamico perché la sua promessa di uguaglianza non è stata mantenuta” (Knight, 2015).

Secondo Pope.L la bandiera “è uno spazio di disaccordo e accordo” e questo condensa il discorso articolato sul simbolismo della bandiera, soprattutto per l’uso del termine ‘spazio’, che rimanda alla radice geopolitica di molti conflitti.

Un altro artista, Robert Longo, ha creato nel 2014 una grande scultura di legno, acciaio e cera che ricorda una porzione di bandiera statunitense, a parte il fatto che è nera e costruita come se fosse una “nave che affonda” (Longo, 2016). La posizione eretta (quasi fallica) di una bandiera che sventola dalla sua asta viene decostruita e riplasmata secondo una diagonale minacciosa. Intitolata Untitled (Pequod) evoca la nave di Achab in Moby Dick (1851) di Herman Melville, una nave che alla fine naufraga come naufraga l’ossessione di Achab per la balena bianca. “Moby Dick è come il codice genetico dell’America” dice Longo, in quanto l’equipaggio è fatto di persone che vengono da culture differenti ma che sono guidate dai bianchi. E Achab “ha questa incredibile arroganza che è molto simile all’arroganza americana di oggi” (Longo, 2016).

Robert Longo, Untitled (Pequod).

Sia Pope.L che Longo affrontano il simbolismo delle bandiere, Forsythe non lo fa. Questa è probabilmente la causa del mio spaesamento, sento che manca qualcosa di importante. Ho apprezzato la scelta di Forsythe di due bandiere così che il movimento non abbia un punto focale ma due. Tuttavia questo si collega all’immagine antropomorfa delle braccia, anche se i robot sono situati sul pavimento e non attaccati ad un oggetto unico. Penso inoltre che il movimento del tessuto nell’aria sia particolarmente interessante, con i tre elementi di questa installazione che interagiscono fra loro: uno è dato dai robot, il secondo dalle bandiere e “l’aria è il terzo giocatore invisibile, si deve praticamente coreografare l’aria e le bandiere” (Forsythe, 2017). Questo aspetto mi ha ricordato due performance: la Danza serpentina (1891) di Loïe Fuller e l’assolo di Martha Graham “Specter 1914” tratto da Chronicle (1936). Fuller utilizzò metri di stoffa cuciti assieme a due bacchette che vennero utilizzate per estendere la lunghezza delle braccia e amplificare il volume del tessuto in movimento. Il suo corpo scompariva e veniva sostituito da curve e spirali plasmate dal costume. Qui un esempio danzato non da Fuller ma da una delle sue rivali e filmato dai fratelli Lumière:
 

L’assolo di Graham è meno ritmato nella manipolazione della stoffa. Il costume è fatto di un top attillato nero con le maniche lunghe e di una gonna molto lunga aperta dietro. Ad un certo punto, la danzatrice inizia a muovere la gonna dal basso verso l’alto, rivelando il colore interno che è rosso (un’altra versione della bandiera anarchica era rossa e nera). Ripete questo gesto diverse volte e, come nel caso di Fuller, la sua figura sembra venir riplasmata dal tessuto in movimento. Qui l’assolo danzato da Katherine Crockett, che è stata principal dancer della Martha Graham Dance Company:


Bandiere, enormi bandiere, bandiere in movimento, bandiere che eseguono una coreografia, bandiere come simboli controversi. Black Flags fa riflettere, è un’affascinante manifestazione di elementi coreografici, con una questione assente, un’affermazione (di qualsiasi tipo) sul simbolismo della bandiera, che considero come l’elefante nella stanza (espressione di matrice anglofona usata per parlare di una questione molto evidente che però viene evitata). Come ha scritto il poeta John Agard nella sua poesia “Bandiera”:

Cos’è che sventola nella brezza?
È solo un pezzo di stoffa
che mette una nazione in ginocchio (Agard, 2004).



REFERENCES

afag,"Appendix - The Symbols of Anarchy", in Anarchist Writers, 11 Ottobre 2008, http://anarchism.pageabode.com/afaq/append2.html (consultato 16 marzo 2019).

John Agard, “Flag”, in Half-Caste and Other Poems (London: Hodder Children’s Books, 2004), consultato in The Poetry Archive, https://www.poetryarchive.org/poem/flag (consultato 16 marzo 2019).

The George Balanchine Trust, “Stars and Stripes”, balanchine.com, nessuna data, http://balanchine.com/stars-and-stripes/ (consultato 16 marzo 2019).

William Forsythe, “Choreographic Objects – Essay”, nessuna data, williamforsythe.com, https://www.williamforsythe.com/essay.html (consultato 15 marzo 2019).

William Forsythe, “William Forsythe: Choreographic Objects”, Gagosian, 23 Ottobre 2017, youtube video, https://www.youtube.com/watch?v=WgQYc5xJc5w (consultato 16 marzo 2019).

Christopher Knight, “William Pope.L sets the U.S. flag waving at the MOCA/Geffen”, Los Angeles Times, 24 marzo 2015, https://www.latimes.com/entertainment/arts/la-et-cm-pope-l-moca-review-20150324-column.html (consultato 15 marzo 2019).

Robert Longo, “I Will Strike the Sun”, Out of Sync – Art in Focus, 18 maggio 2016, youtube video, https://www.youtube.com/watch?v=n-jZFOAw46I (consultato 15 marzo 2019).

William Pope.L, “William Pope.L: Trinket”, MOCA, 15 aprile 2015, youtube video, https://www.youtube.com/watch?v=h5wdIAtO4pU (consultato 15 marzo 2019).

Marina Warner, Monuments and Maidens – The Allegory of the Female Form (London: Picador, 1985). 


19 marzo 2019