Il Teatro Storchi di Modena è un teatro di fine Ottocento con una bella facciata simmetrica. È una splendida serata diverse persone si stanno raggruppando per vedere l’adattamento di Giselle (2017) a firma Dada Masilo, un lavoro sul cambiamento delle simmetrie in fatto di relazioni. Il poster della performance mostra Masilo nel ruolo di Giselle mentre esegue uno slancio della gamba in alto con il piede flesso di fronte ad una danzatrice vestita di rosso con un frustino in mano. Lo slancio di Masilo è emblematico della sua versione in quanto esemplifica l’intenzione che ha di concentrarsi sulla cattiveria delle wili, la loro forza e il loro potere fatale.
La storia del balletto Giselle (1841) è la quintessenza della storia romantica di amore e perdita. La contadina Giselle si innamora di Albrecht che le nasconde di essere un nobile e di essere promesso ad un’altra nobile. Quando Giselle scopre la verità grazie a Hilarion, anche lui innamorato di lei, diviene pazza in un’epica scena drammatica e muore per rinascere poi sotto forma di wili, uno spirito notturno destinato a uccidere coloro che entrano nel suo regno nella foresta. Tuttavia, Gielle ama Albrecht e decide di salvarlo dalla morte nel momento in cui egli si avventura nella foresta per pregare alla sua tomba.
La Giselle di Masilo è la risultante di numerosi cambiamenti. In primo luogo, la sua Giselle non è così fragile e timida come quella classica. Un esempio è quando rifiuta decisa i fiori di Hilarion (Tshepo Zasekhaya). In secondo luogo, vi è lo stile secondo il quale la coreografia è organizzata: contemporaneo, mescolato al classico e africano. È un mix esplosivo di energia che dà forma a frasi di gruppo vibranti, Masilo al suo meglio, duetti lirici, soprattutto fra Giselle e Albrecht (un meraviglioso Lwando Dutyulwa) e assoli penetranti. In terzo luogo vi è la svolta fondamentale nella storia che avviene nella seconda parte: la vendetta di Giselle contro Albrecht.
Poster Giselle, foto Rosella Simonari.
Masilo lavora sui personaggi e la struttura narrativa reagendo alla società odierna, alla sua ingiustizia, violenza e discriminazione. Da qui la decisione di ambientare il lavoro in Sud Africa ispirandosi ad aspetti della sua cultura e tradizione. Il ruolo di Myrtha, la regina delle wili, è efficace e rivelatore, in questo senso. Danzato in modo potente da un danzatore, Llewellyn Mnguni, vestito come le altre wili, Myrtha è un Sangoma, ossia un guaritore sud africano, il che dà una sfumatura sacra al ruolo. Mnguni ha i capelli in lunghe treccine chiare e tiene in mano un frustino provvisto di capelli, una sorta di scopetta, che viene utilizzata nelle cerimonie e che entra in una dinamica visiva con i suoi capelli spesso agitati in aria. I suoi movimenti sono curvi e densi con il fondoschiena fuori asse. Altri elementi sud africani includono l’inno funebre cantato dopo la morte di Giselle alla fine del primo atto: “va in cielo cuore mio, perché non c’è pace su questa terra”, che viene sottolineato da una lenta processione dei membri della sua comunità.
L’elemento queer è inoltre presente nel gruppo delle wili che includono anche degli uomini. Masilo ha già parlato di omosessualità nel suo Swan Lake (2010), ma qui è come se la questione fosse inserita sottotraccia in una sorta di affermazione implicita che la rende discreta e consistente allo stesso tempo. Maschile, femminile, nessuno dei due, entrambi, come ognuno voglia...la fluidità del genere sembra essere un possibile risposta.
Dada Masilo e le altre wili in Giselle, foto Stella Olivier.
Per quanto riguarda il tema della vendetta, Masilo ha spinto la “narrazione originale”, enfatizzando il carattere “cattivo, pericoloso” delle wili. Un’anticipazione cromatica emerge nella scelta di un rosso profondo al posto del bianco fantasma per il costume delle wili e di Myrtha, “volevo che le wili sembrassero come inzuppate di sangue”, afferma Masilo, ricordando il collegamento che a volte viene fatto fra wili e vampiri. Disegnati da Songezo Mcilizeli e Nonofo Olekeng, i costumi sono costituiti da un top senza maniche con dei motivi, un’ampia gonna sotto al ginocchio e corti strati di tulle cuciti dietro. Questo contrasta con il verde vitreo delle luci di Suzette le Sueur che viene proiettato assieme alle wili.
Quando Albrecht giunge in questo luogo perturbante, danza brevemente con Giselle che è vestita di rosso, ma il tono è differente rispetto ai pas de deux che hanno interpretato prima. In questo caso Giselle è arrabbiata e lo spinge via. È l’inizio della fine, Albrecht danza con tre wili un bellissimo pas de quatre dove le wili rimangono insieme ed egli resta separato da loro, stando davanti o dietro. Presto comincia a soffrire di attacchi acuti, viene circondato dalle wili fino a quando Giselle non lo uccide con una lunga frusta. Il corpo giace senza vita, mentre le wili si muovono da destra a sinistra (Albrecht è sulla sinistra) lanciando una polvere bianca in aria. Giselle è l’ultima, le luci si abbassano, sul palco resta il defunto Albrecht. La vendetta è stata pienamente realizzata e una giustizia perversa fornita a tutte quelle donne che sono state offese dagli uomini. La sovente percussiva musica di Philip Miller e i disegni ispirati alla natura e a volte proiettati sullo sfondo di William Kentridge, completano la coreografia che porta a riflettere profondamente in termini di stile, interpreti e narrazione.
Raffaella Giordano in CELESTE appunti per natura, foto di Andrea Macchia.
Il braccio si muove rotondo, il passo è cadenzato, l’abito una superficie turchese, gialla e blu. Queste alcune delle istantanee che rimangono in mente (e nel corpo) dopo aver visto CELESTE appunti per natura, l’assolo di e con Raffaella Giordano, co-direttrice della compagnia di danza contemporanea Sosta Palmizi.
Sosta Palmizi è una delle compagnie storiche di danza contemporanea in Italia. Ha esordito con Il Cortile nel 1985 e, come sottolinea Ambra Senatore, è emersa quale “fenomeno di svolta” nella storia della danza italiana. CELESTE appunti per natura lancia un lazo immaginario a Il Cortile in quanto si avvale delle composizioni dello stesso musicista, Arturo Annecchino.
Creata nel 2017, la coreografia è stata riproposta domenica 17 marzo, quale ultimo spettacolo della rassegna “Invito di Sosta" (XI Edizione) che si è tenuta al Teatro Mecenate di Arezzo da Ottobre 2018 a Marzo 2019. Una “chiusura di apertura”, ha sottolineato Giorgio Rossi, co-direttore di Sosta Palmizi assieme a Giordano. L’auspicio riguarda l'intenzione di organizzare una nuova rassegna per l’autunno, ma anche e soprattutto l’assolo stesso che rappresenta l’apertura verso un ricco microcosmo di passi, gesti e immagini. Per esempio, quando Giordano si inginocchia e posa mani e testa sul palco, o quando si mette il tronco di legno provvisto di due fori (uno dei tre oggetti in scena) dietro al collo, rimandando forse alle torture medievali della gogna, è un solo attimo, ma davvero struggente.
E poi c’è il silenzio, i gradi di silenzio alternati alle musiche e suoni (questi a cura di Lorenzo Brusci). Giordano dà spesso le spalle al pubblico e si copre il viso con le mani, fino a quando non indossa una maschera fatta di carta, un semplice foglio di carta con tre fori, due per gli occhi e uno per la bocca. Come spiega nella conversazione dopo la performance, ha lavorato molto sull’invisibile, sul senso del ritrarsi per lasciare spazio ad altro: il gesto, il ritmo pacato, il corpo in movimento, l’attraversamento dello spazio.
CELESTE appunti per natura si ispira in parte ad un libro insolito, L’estate della collina (1969) di J.A. Baker, scrittore semisconosciuto che vi “racconta e descrive unicamente la natura”. Giordano riprende l’intenzione dell’autore di rimuovere se stesso dal testo per far emergere proprio la natura. Il gesto reiterato di coprirsi il volto della coreografa danzatrice appare curioso e intimo allo stesso tempo. E nell’oggi intemperante di facebook (il libro dei visi, potremmo dire), questo gesto assume densità e si fa proposta di sguardo altro, di attenzione verso i dettagli e verso identità incarnate dove il viso è una componente fra le tante, non la direttiva social.
E infine, ma non da ultimo, l’abito, il movimento dell’abito e dentro all’abito. Dipinto da Gianmaria Sposito, ha uno scollo rotondo, maniche lunghe leggermente a sbuffo e una gonna a campana con degli spacchi laterali. Riluce, si comprime e si espande nel percorso coreografico, dialoga con i piedi nudi di Giordano e sottolinea la posizione delle mani, spesso giunte o riverse sulla stoffa. È un microcosmo nel microcosmo, anch’esso un “servizio all’azione”, la “cura” che Giordano dedica al suo lavoro.
Black
Flags è una grande installazione che William Forsythe ha creato nel
2014 per uno dei suoi progetti denominati Choreographic Objects.
Forsythe ha rivoluzionato il linguaggio della danza sin dalla fine
degli anni Ottanta, con il suo stile radicale e decostruttivo nei
confronti del balletto. Nel 2005 ha spinto la sua creatività ancora
più oltre facendosi domande come, “è possibile per la coreografia
generare autonome espressioni dei suoi principi, un oggetto
coreografico, senza il corpo?” (Forsythe, senza data). Il risultato
sono stati i Choreographic Objects, una serie di installazioni
impegnative che potevano distinguersi per grandezza, materiale e
struttura.
Black
Flags è uno di questi, è gigante ed è fatto di due bracci robotici
che tengono e muovono due bandiere nere. Il tessuto scuro e grande di
ogni bandiera si muove a volte in unisono con l’altra, altre volte
secondo una direzione o angolo differenti, “c’è una
distribuzione di forze davvero unica” dice Forsythe, lodando la
“bellezza e precisione” (Forsythe, 2017) di questi oggetti. Il
rumore dei robot in azione è l’unica ‘musica’ del pezzo.
Non
ho visto questa installazione dal vivo, ma ho sentito un senso
profondo di spaesamento perturbante guardando il video della
performance e ho iniziato a pensare al perché. La prima cosa che mi
è venuta in mente sono gli sbandieratori italiani, artisti che
muovono le bandiere in varie direzioni e in aria in
composizioni acrobatiche. Non è chiara la loro origine, ma
oggigiorno ci sono numerosi spettacoli di ispirazione medievale che
includono l’esibizione degli sbandieratori il cui lavoro può
essere certamente visto come un tipo di coreografia. Qui un paio di
esempi, il primo è una registrazione dal vivo degli sbandieratori di
Lanciano, il secondo è un ritratto video degli sbandieratori di
Acquapendente:
Guardando
le bandiere di Forsythe e gli sbandieratori si può notare
l’inquietante (Forsythe stesso usa il termine ‘inquietare’,
vedi Forsythe, 2017) calma delle prime e il brio dei secondi, c’è
una connessione nell’abile manipolazione delle bandiere, ma una
netta differenza nella dinamica.
Lo
spaesamento continua, c’è qualcosa fuori posto in questa
installazione, ma ancora non so cosa sia. Poi arriva la seconda
associazione, è con la bandiera anarchica, che era di colore nero verso la
fine dell’Ottocento e inizio del Novecento. Resa popolare da Louise
Michel in Francia negli anni Ottanta del 1800, la ritroviamo poi in
altri paesi come gli Stati Uniti (afaq, 2008). Secondo Howard Ehrlich,
il colore nero fu scelto per l’associazione a vari elementi:
“Il
nero è la sfumatura della negazione. La bandiera nera è la
negazione di tutte le bandiere. È la negazione della nazionalità
che mette la razza umana contro se stessa e nega l’unità
dell’umanità. Il nero è uno stato d’animo di rabbia e sdegno
(…). Il nero è anche il colore del lutto. (…) Il nero è anche
bello. È il colore della determinazione, risolutezza, forza, un
colore attraverso il quale tutti gli altri vengono chiariti e
definiti. Il nero è la zona misteriosa della germinazione,
fertilità, il terreno dove si alleva di nuovo la vita che si evolve
sempre, si rinnova, si ricarica e riproduce se stessa nell’oscurità”
(Ehrlich, citato in afaq, 2008).
Ci
sto arrivando. Questo senso di spaesamento è collegato all’idea
di nazione/gruppo che la bandiera incorpora. E penso alle bandiere
statunitensi piantate sulla Luna nel 1969 o, andando indietro, alla
bandiera nel quadro di Eugène Delacroix, La Libertà che guida il
popolo (1830), dove l’allegoria della forma femminile (Warner,
1985) rappresenta l’ideale di Libertà e guida un gruppo di persone
attraverso la guerra (più specificatamente si tratta della
Rivoluzione di Luglio del 1830). La stessa bandiera tricolore diventerà poi la bandiera nazionale francese.
Forsythe,
parlando di Black Flags, afferma che hanno lavorato duramente “per
de-antropomorfizzare questi robot nelle loro azioni e abbiamo fatto
tutto il possibile per rimuovere l’idea di dominio, sottomissione o
scopo anche se si inserisce furtivamente dentro” (Forsythe, 2017).
Non penso di essere d’accordo con questa idea. Le bandiere sono
simboli molto sovraccarichi e connessi alla storia umana, la
politica, la cultura e vari altri campi (c’è anche una disciplina
che si occupa del loro studio, si chiama Vexillologia, dal latino
‘vexillum’, bandiera) e portano con sé segni di dominio e
sottomissione. Scegliere delle bandiere per un’installazione senza
entrare in relazione con questi segni significa perpetrarli in
qualche modo. George Balanchine, per esempio, ha coreografato due
balletti dedicati alle bandiere, Stars and Stripes (1958), per la
bandiera statunitense e Union Jack (1976), per quella inglese,
scegliendo un tono celebrativo e “tratti patriottici” (Balanchine
Trust, nessuna data).
Trinket
di William Pope.L, un’installazione del 2008 dove una gigantesca
bandiera viene fatta sventolare da grossi ventilatori industriali e
viene illuminata da diverse luci, è piuttosto differente in questo
senso. Sembra una bandiera degli Stati Uniti ma non lo è in quanto
Pope.L ha aggiunto una stella, che è un piccolo dettaglio in grado
di scompaginarne l’aspetto simbolico. In modo simile, il titolo,
che significa ‘ninnolo’ e, in questo caso, fa riferimento ad una
spilla (magari a forma di bandiera), si pone in forte contrasto con la
maestosità del simbolo della bandiera, “quando si parla di cose
grandi, usate parole piccole” dice (Pope.L, 2015).
Christopher
Knight riassume il lavoro come segue:
“La
promessa di uguaglianza del simbolismo della bandiera si comprende
facilmente, ma ciò che rende la scultura grande è la sua profondità
stratificata. Più difficile da rappresentare è il simbolo del
potere, la cui fonte è controintuitiva: il simbolo è dinamico
perché la sua promessa di uguaglianza non è stata mantenuta”
(Knight, 2015).
Secondo
Pope.L la bandiera “è uno spazio di disaccordo e accordo” e
questo condensa il discorso articolato sul simbolismo della
bandiera, soprattutto per l’uso del termine ‘spazio’, che
rimanda alla radice geopolitica di molti conflitti.
Un
altro artista, Robert Longo, ha creato nel 2014 una grande scultura
di legno, acciaio e cera che ricorda una porzione di bandiera
statunitense, a parte il fatto che è nera e costruita come se fosse
una “nave che affonda” (Longo, 2016). La posizione eretta (quasi
fallica) di una bandiera che sventola dalla sua asta viene
decostruita e riplasmata secondo una diagonale minacciosa. Intitolata
Untitled (Pequod) evoca la nave di Achab in Moby Dick (1851) di
Herman Melville, una nave che alla fine naufraga come naufraga
l’ossessione di Achab per la balena bianca. “Moby Dick è come il
codice genetico dell’America” dice Longo, in quanto l’equipaggio
è fatto di persone che vengono da culture differenti ma che sono
guidate dai bianchi. E Achab “ha questa incredibile arroganza che è
molto simile all’arroganza americana di oggi” (Longo, 2016).
Robert Longo, Untitled (Pequod).
Sia
Pope.L che Longo affrontano il simbolismo delle bandiere, Forsythe
non lo fa. Questa è probabilmente la causa del mio spaesamento,
sento che manca qualcosa di importante. Ho apprezzato la scelta di
Forsythe di due bandiere così che il movimento non abbia un punto
focale ma due. Tuttavia questo si collega all’immagine antropomorfa
delle braccia, anche se i robot sono situati sul pavimento e non
attaccati ad un oggetto unico. Penso inoltre che il movimento del
tessuto nell’aria sia particolarmente interessante, con i tre
elementi di questa installazione che interagiscono fra loro: uno è
dato dai robot, il secondo dalle bandiere e “l’aria è il terzo
giocatore invisibile, si deve praticamente coreografare l’aria e le
bandiere” (Forsythe, 2017). Questo aspetto mi ha ricordato due
performance: la
Danza serpentina (1891) di Loïe Fuller e l’assolo di Martha Graham
“Specter 1914” tratto da Chronicle (1936). Fuller utilizzò metri
di stoffa cuciti assieme a due bacchette che vennero utilizzate per
estendere la lunghezza delle braccia e amplificare il volume del
tessuto in movimento. Il suo corpo scompariva e veniva sostituito da
curve e spirali plasmate dal costume. Qui un esempio danzato non da
Fuller ma da una delle sue rivali e filmato dai fratelli Lumière:
L’assolo
di Graham è meno ritmato nella manipolazione della stoffa. Il
costume è fatto di un top attillato nero con le maniche lunghe e di
una gonna molto lunga aperta dietro. Ad un certo punto, la danzatrice
inizia a muovere la gonna dal basso verso l’alto, rivelando il
colore interno che è rosso (un’altra versione della bandiera
anarchica era rossa e nera). Ripete questo gesto diverse volte e,
come nel caso di Fuller, la sua figura sembra venir riplasmata dal
tessuto in movimento. Qui l’assolo danzato da Katherine Crockett,
che è stata principal dancer della Martha Graham Dance Company:
Bandiere,
enormi bandiere, bandiere in movimento, bandiere che eseguono una
coreografia, bandiere come simboli controversi. Black Flagsfa
riflettere, è un’affascinante manifestazione di elementi
coreografici, con una questione assente, un’affermazione (di
qualsiasi tipo) sul simbolismo della bandiera, che considero come
l’elefante nella stanza (espressione di matrice anglofona usata per
parlare di una questione molto evidente che però viene evitata).
Come ha scritto il poeta John Agard nella sua poesia “Bandiera”:
Cos’è che sventola nella brezza?
È solo un pezzo di stoffa
che mette una nazione in ginocchio (Agard, 2004).
REFERENCES
afag,"Appendix
- The Symbols of Anarchy", in Anarchist Writers, 11 Ottobre
2008, http://anarchism.pageabode.com/afaq/append2.html (consultato 16 marzo 2019).
John Agard, “Flag”, in Half-Caste and
Other Poems (London: Hodder Children’s Books, 2004), consultato in The Poetry Archive, https://www.poetryarchive.org/poem/flag (consultato
16 marzo 2019).
The George Balanchine Trust, “Stars and
Stripes”, balanchine.com, nessuna data,
http://balanchine.com/stars-and-stripes/ (consultato 16 marzo
2019).
William Forsythe, “Choreographic Objects –
Essay”, nessuna data, williamforsythe.com,
https://www.williamforsythe.com/essay.html (consultato 15 marzo
2019).
William Forsythe, “William Forsythe:
Choreographic Objects”, Gagosian, 23 Ottobre 2017, youtube video,
https://www.youtube.com/watch?v=WgQYc5xJc5w (consultato 16 marzo
2019).
Christopher Knight, “William Pope.L sets the U.S.
flag waving at the MOCA/Geffen”, Los Angeles Times, 24 marzo
2015,
https://www.latimes.com/entertainment/arts/la-et-cm-pope-l-moca-review-20150324-column.html
(consultato 15 marzo 2019).
Robert Longo, “I Will Strike
the Sun”, Out of Sync – Art in Focus, 18 maggio 2016, youtube video,
https://www.youtube.com/watch?v=n-jZFOAw46I (consultato 15 marzo
2019).
William Pope.L, “William Pope.L: Trinket”,
MOCA, 15 aprile 2015, youtube video,
https://www.youtube.com/watch?v=h5wdIAtO4pU (consultato 15 marzo
2019).
Marina Warner, Monuments and Maidens – The
Allegory of the Female Form (London: Picador, 1985).