giovedì 2 gennaio 2014
Ricordanze
Susanne Franco, Marina Nordera, a cura di, Ricordanze – Memoria in movimento e coreografie della storia (Torino: UTET, 2010).
La danza vive cibandosi di quella che Susanne Franco e Marina Nordera chiamano l’ambivalente “retorica dell’effimero” che, da un lato, porta a non lasciare tracce dietro di sé e, dall’altro, tende a sfuggire più facilmente a censure e controlli. La danza sembrerebbe dunque relegata alla dimensione dell’oralità e, in questo senso, collegata al concetto di memoria. Ma non è precisamente così che vanno le cose, in quanto la danza lascia delle tracce che possono essere raggruppate e anche catalogate in appositi archivi così che lo storico o la storica possa consultarli e mettere insieme il mosaico affascinante che denominiamo danza. La memoria quindi si relaziona alla storia in un rapporto non sempre felice, ma che può fare di un corpo una sorta di archivio vivente e del racconto storico una narrazione non oggettiva.
Questo testo splendido, importantissimo e ricco raccoglie gli interventi di numerosi studiosi sul tema storia e memoria, tema che viene suddiviso in sei punti di vista differenti: archivio ed esperienza; incorporazione; eredità rappresentate; sulle tracce; oblio, assenza, rimozione; trasmettere.
Il primo indaga la nozione di archivio che Laurent Sebillotte definisce come una “pietrificazione apparente” in quanto l’esperienza dell’archivio, ossia l’analisi delle tracce lasciate dalle performance del passato, può divenire un “atto creativo in sé”. In questa sezione, a parte l’ottimo saggio dello stesso Sebillotte, vi sono quelli di Patrizia Veroli e Marina Nordera, che con specificità proprie, trattano dell’importanza dell’archivio in relazione rispettivamente ad Aurel Milloss e Francine Lancelot.
Il secondo si concentra sul termine di recente formazione, ‘incorporazione’, che “fa del corpo un deposito attivo di memoria a cui attingere”. I saggi di Susan Leigh Foster, Basile Doganis e Annalisa Sacchi propongono riflessioni particolarmente stimolanti, che spaziano dal concetto di ‘simpatia cinestetica’ del giornalista e teorico della danza John Martin, ossia della capacità di un corpo di percepire fisicamente quello che un altro corpo fa, a quello di ‘kata’ (forma o stampo in giapponese) che ha a che fare con delle “sequenze gestuali strutturate” nella tradizione dell’arte marziale.
Il terzo è uno dei più accessibili ed è dedicato alle ‘eredità rappresentate’ il cui significato si interseca con quello di canone, “vale a dire una lista di opere ritenute degne di essere trasmesse perché rappresentative di una certa cultura”. Il canone ha i suoi limiti dato che tende a “cristallizzare nel tempo le opere”. In ambito coreutico è rapportabile a quello di repertorio, ma proprio per questo, si auspicano le curatrici, dovrebbe “essere di volta in volta ristabilito”. Accanto a questo tipo di eredità vi è poi quello occultato, come accade, in alcuni casi, per le danze tradizionali (la pizzica ne è un esempio). I saggi di questa sezione sono particolarmente interessanti e vertono su eredità rappresentate alquanto differenti: Mattia Scarpulla analizza la produzione di Ea Sola fra memoria e archivio evidenziandone le contraddizioni fruttuose, Jacqueline Shea Murphy si occupa della haka maori che incarna un esempio importante di relazione di potere fra bianchi e maori, Susanne Franco presenta due rivisitazioni di un’opera appartenente al canone, Le Jeune Homme et la Mort di Roland Petit fra “diritti d’autore e doveri della memoria”.
Il quarto punto ha un titolo evocativo, “Sulle tracce” e s’incentra sulla questione della ricostruzione e sulla problematizzazione delle fonti, ossia su quel processo di contestualizzazione delle tracce che una coreografia lascia dietro di sé. A questo proposito il saggio di Yvonne Hardt è innovativo nel delineare lo sviluppo dello spettacolo TR_C_NG del 2007, uno spettacolo che coniuga “indagine accademica e produzione artistica”; quello di Peggy Phelan commovente nel mescolare i ricordi personali incentrati su di una persona cara scomparsa e l’Orfeo di Trisha Brown secondo il filo conduttore della morte; infine il saggio di Alessandro Pontremoli è un tripudio di spunti col suo cavalcare gli archivi e le memorie coreutici alla corte quattrocentesca degli Sforza.
Il quinto è forse il più interessante, “Oblio, assenza, rimozione” in quanto porta a riflettere sul concetto di assenza e dimenticanza. L’oblio viene paragonato alla morte in quanto “sembra minare alla base la possibilità stessa della rappresentazione del passato”. D’altro canto però, l’oblio potrebbe anche rappresentare “una strategia di difesa” per rimuovere delle esperienze traumatiche. Il saggio di Mahalia Lassibille indaga lo sguardo dell’etnologo e i rischi di etnocentrismo che esso comporta; quello di Gerald Siegmund si concentra sulla Sagra della primavera di Pina Bausch interpretandolo “come un viaggio nella natura traumatica del movimento”; e quello notevole di Beatriz Martinez del Fresno che narra del ruolo della Sección Femenina della Falange franchista nella “memoria collettiva della danza del dopoguerra”.
Il sesto è intitolato "Trasmettere", concetto chiave nel discorso sulla relazione fra storia e memoria che consta nel passaggio di conoscenze e che ci dice molto su cosa intendiamo per tradizione. Joëlle Vellet parla di “memoria plurale e multiforme” e della trasmissione come di un’avventura “per superare delle prove”; Avanth Meduri ci llustra la “trasmissione della danza sudasiatica a Londra”, un percorso frutto di diverse tappe e trasformazioni a seguito dei camibamenti apportati dalla globalizzazione e non solo; e Jens Giersdorf presenta una riflessione su Patricio Bunster, e sulla “funzione politica della coreografia”.
2 gennaio 2014
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