domenica 21 aprile 2019

"Non io": Autobiography di Wayne McGregor


Una scena di Autobiography, foto Andrej Uspenski.

“Che cosa significa scrivere la propria storia?” recita il programma di Autobiography (2017) della compagnia di danza contemporanea Company Wayne McGregor. È una questione complessa e danzatori e coreografi hanno risposto a questa domanda in modi diversi. La pioniera della danza moderna, Isadora Duncan, introducendo la sua autobiografia del 1927, sottolineò la difficoltà intrinseca nella scrittura, “mi ci son voluti anni di lotta, duro lavoro, e ricerca per imparare a fare un semplice gesto, e conosco abbastanza l’Arte della scrittura per realizzare che mi ci vorrebbero di nuovo molti anni di sforzo e concentrazione per scrivere una frase semplice e bella”. Più recentemente, il ballerino e coreografo Carlos Acosta ha affrontato la questione autobiografia in modi diversi, che vanno dalla sua coreografia semiautobiografica del 2003, Tocororo, al suo libro del 2008, No Way Home al film sulla sua storia, uscito da poche settimane, Yuli, dove gli elementi autobiografici si intrecciano alla narrazione cinematografica.

McGregor ha optato per un’altra strada, quella della scienza, la tecnologia, il cinetismo fluido e alcuni ‘semi’ del suo passato. La genesi della coreografia, come ci dice David Jays del Guardian, è iniziata con la fascinazione del coreografo per l’intelligenza artificiale e con che ruolo potesse avere nel suo lavoro. Ciò ha portato McGregor a concentrarsi sul suo codice genetico e su come egli lo potesse trasformare in un forma differente. Ha inoltre preso in esame alcuni aspetti della sua vita, “cose di famiglia, fotografie, poesie da me scritte” e le ha mutate in quelli che chiama ‘volumi’, sezioni che vengono assemblate ad ogni performance da un algoritmo creato da Nick Rothwell. In questo modo ogni performance ha una sequenza diversa.

Quella presentata al Teatro Ponchielli di Cremona, sabato 13 aprile, è iniziata con “1 avatar”, dove un danzatore a petto nudo si muove attraverso lo spazio, articolando le braccia su e giù, slanciando una gamba indietro, stendendo le gambe e poi eseguendo un grand plié in seconda. È un assolo intenso che sembra creare un forte contrasto con la struttura geometrica sopra di lui. Ideata da Ben Cullen Williams, ricopre tutto il soffitto del palco ed è fatta di aste di metallo che formano delle piramidi con la punta verso il basso. È una struttura gigantesca che si muoverà giù e poi su durante la performance. Come in “6 sleep”, quando si abbassa drammaticamente fino a quasi toccare il pavimento e ‘costringendo’ i danzatori ad assumere una posizione orizzontale (quella che abbiamo quando dormiamo, ‘sleep’ significa dormire, sonno).

I danzatori sono tutti eccezionali. Ricordo di aver visto un lavoro di McGregor anni fa (probabilmente era il 2008) a Londra. Penso la coreografia fosse Entity (2008). La compagnia allora si chiamava Random Dance e anche a quel tempo era costituita da grandi danzatori. Però, notai una specie di qualità poco morbida e agevole di movimento, qualcosa che scomparve quando vidi il suo Infra (2008) danzato dal Royal Ballet. In Autobiography, i danzatori padroneggiano sia la grammatica della danza classica che quelle di tecniche incentrate sul movimento del torso. Le braccia, per esempio, tagliano lo spazio in numerose direzioni, assumendo la forma di un port de bras del balletto o il dipanarsi e ritrarsi di linee magnetiche e veloci. È un vero piacere guardare questa visione fluida del movimento.

L’altro aspetto che colpisce è il disegno luci magistrale della collaboratrice di lunga data di McGregor, Lucy Carter. In alcuni momenti si può solo dire “Wow!” di fronte a quello che ha elaborato. Come in “19 ageing” quando una danzatrice dai capelli rosa, braccia in seconda, viene avviluppata da una bellissima luce rossa o in “8 nurture” quando delle luci accecanti dal fondo palco vengono ripetutamente accese interrompendo la vista del pubblico.

Autobiography riguarda non riguarda McGregor. Ha a che fare con il suo codice genetico, frammenti della sua vita tramutati in movimento, luci, musica, scenografia, drammaturgia e così via. Uno dei volumi si chiama “13 not I” che significa “13 non io” ed è paradigmatico del suo stile. Non è il suo sé individuale in termini narrativi tradizionali. Nel programma egli parla del corpo come archivio, una nozione che è stata analizzata dagli studiosi di danza da un po’ di tempo. Uno di loro, André Lepecki, l’ha studiata in relazione ad alcuni esempi di rimessa in scena, dicendo che si tratta di “un sistema in grado di trasformare simultaneamente passato, presente e futuro”. E McGregor è in linea con questo concetto, che egli considera “non come un evento nostalgico ma come un’idea di futuro ipotetico. Ogni cellula trasporta in se stessa l’intero piano della nostra vita”.

21 aprile 2019