lunedì 26 agosto 2013

Burattini, robot e la poetica del confronto a Civitanova Danza

Burattini, robot e la poetica del confronto a Civitanova Danza

Teatro Annibal Caro, Civitanova Alta

Teatro Rossini, Teatro Cecchetti, Civitanova Marche

20 luglio 2013

Civitanova Danza, il festival capisaldo della danza contemporanea e non solo nelle Marche e in Italia, quest'anno compie vent’anni. Enrico Cecchetti, a cui il festival è dedicato, sarebbe stato contento dei risultati raggiunti dalla sua città di origine. Cecchetti, oltre ad essere stato un ballerino apprezzatissimo per le sue doti tecniche, fu anche un maestro di danza che per molti anni insegnò presso il Teatro Mariinskij di San Pietroburgo. Fra i suoi allievi vi furono ballerini di fama internazionale come Anna Pavlova, Vaclav Nijinskij, Leonide Massine, Ninette de Valois, Marie Rambert e George Balanchine.
Virgilio Sieni, foto Sailko.


Gli appuntamenti del festival di quest’anno sono stati contrassegnati da incontri con esperti del settore, esibizioni delle scuole di danza della città, un campus con docenti della Scuola di Ballo della Scala e dell’Opéra de Paris, oltre che dagli spettacoli veri e propri. Spettacoli che sono stati raggruppati in due maratone con più offerte, fra le quali spiccava l’attesa nuova coreografia di Blanca Li e la prima assoluta di Zappalà Danza, e due serate a tema unico, una, Romeo and Juliet di Aterballetto da tenersi presso l’Arena Sferisterio di Macerata (serata che però, a causa del taglio dei fondi FUS - Fondo Unico dello Spettacolo - per la Regione Marche, è stata annullata) e l’altra, La notte della stella con Svetlana Zakharova, al Teatro Rossini.


Il 20 luglio, in particolare, è iniziato con un incontro dedicato al tema “Emergere/essere giovani” con Francesca Bernabini di Federdanza, Selina Bassini di Cantieri Danza e Virgilio Sieni, coreosofo fra i più affermati del panorama nazionale, nonché, da quest’anno, direttore artistico della Biennale Danza di Venezia. Se le prime due relatrici hanno fornito, pur con i loro differenti punti di vista, una prospettiva di carattere tecnico-pratico su come un giovane danzatore possa muoversi in Italia per emergere, Sieni, da affabulatore d’altri tempi qual è, ha deliziato il pubblico con la sua prospettiva dal didentro e con il suo linguaggio visionario. Secondo il coreosofo fiorentino un’importanza fondamentale riveste il rapporto col pubblico che è riconducibile ad un rapporto con l’alterità e altrettanto importante è la figura dell’insegnante di danza che dovrebbe quasi trasformarsi in un maestro di bottega come ne esistevano una volta, per recuperare i significati profondi del fare danza nel senso più ampio del termine, significati che egli denomina con un’espressione molto evocativa, “fessurazioni spirituali”.


Locadina dello spettacolo Pinocchio, foto Virgilio Sieni.
A questo dibattito, moderato dal direttore artistico dell’Amat, Gilberto Santini, è seguito un momento danzante delle scuole di danza della città, in Piazza XX Settembre. Poi via, si è corso verso l’inizio della maratona su di un bus navetta che ci ha condotti a Civitanova Alta dove ci attendeva l’assolo Pinocchio di Virgilio Sieni, spettacolo che doveva andare in scena per ultimo ma che è stato invece anticipato. Protagonista è un danzatore non vedente, Giuseppe Comuniello, che impersona un Pinocchio “leggermente diverso”, come recita il sottotitolo dell’opera. 


Leggermente diverso non soltanto perché è un non vedente a danzare, ma anche e soprattutto perché Sieni trasforma la celebre fiaba di Collodi in un percorso “sulla nascita e la crescita dell’uomo alla ricerca dell’origine dei sensi”. E Pinocchio, come si evince dal programma di sala, è anche Geppetto che “è un non vedente che da alcuni anni si prepara alla danza”. Quindi il livello del racconto si sposa poi con un livello che va oltre il racconto stesso e che si ispira forse alla vita di Comuniello in un gioco ad incastri lieve e soave. 


Il palco è pieno di oggetti ideati da Antonio Gatto fra cui un pannello sonorizzato sul quale Comuniello farà dei disegni. Comuniello indossa un paio di orecchie da asino ed un naso lungo. Danza una danza di gesti a volte minuti ed eleganti, altre volte più decisi e marcati; in un momento sul proscenio si accarezza il braccio leggerissimamente ad occhi chiusi per poi eseguire dei giri a scatti e andare a terra. Durante la coreografia su di uno schermo in fondo appaiono delle scritte dirette al pubblico, “il centro è più o meno qui”, “la cassa è più o meno lì”, “la direzione verso il centro è più o meno questa” per concludersi con “venite dietro a me e non abbiate paura”. Queste scritte sembrano evidenziare la percezione forse imprecisa dello spazio da parte del protagonista, ma sembrano anche sottolineare che il suo mondo è un bel mondo, un mondo che egli ci invita a scoprire senza avere timore. 


La sensazione è che le varie sezioni della coreografia, il programma di sala ne enumera quattro, siano incompiute e che la coesione cinetica del pezzo sia un po’ lacunosa rispetto a quello che promette. Comuniello interagisce inoltre direttamente con il pubblico in un paio di occasioni, la prima chiamando quattro volontari solo per farsi sorreggere mentre lancia dei petali rossi e mentre ha una specie di crisi epilettica, la seconda chiamando una persona che lo aiuti a legarsi dei mattoncini sotto i piedi, a mo’ di scarpe. In questo secondo caso l’interazione è più riuscita dato che il nostro Pinocchio/Geppetto veste poi questa persona con un k-way e conclude la danza caricandosela sulle spalle. 


Siamo in ritardo, dobbiamo tornare a Civitanova Marche, ci avviciniamo al punto dove il bus navetta dovrebbe aspettarci, ma il bus non c’è in quanto era pieno e dovrà fare un altro viaggio per venire a prenderci. Il tempo dell’attesa diviene il tempo dello scambio di opinioni che l’assolo ci ha procurato, forse un po’ di delusione, ma anche la sensazione che Sieni intenda esplorare qualcosa che vada oltre il fare danza classicamente inteso, qualcosa che ci riconduca al significato dei gesti e alla loro poesia.


Una scena di Robot, foto di Magali Bragard.
La storia del burattino di Collodi evoca associazioni con altri automi antropomorfi che popolano il mondo della danza, come Coppélia (1870) di Arthur Saint-Léon e Petrouchka (1911) di Michel Fokine, come a mostrare il legame sottile che unisce il mondo della danza al mondo artificiale degli automi, nella ricerca della perfezione di un movimento o di una posa.
 

E Robot, che va in scena al Teatro Rossini, si ricollega idealmente proprio a questa tematica. L'autrice è Blanca Li, coreosofa spagnola trapiantata in Francia. È un salto quantico rispetto alla delicatezza dell’opera di Sieni. È un lavoro di gruppo dove i danzatori dal fisico scultoreo si muovono spesso ad un ritmo incalzante. Vi sono degli oggetti meccanici sullo sfondo che scopriamo presto essere impianti musicali del gruppo Maywa Denki che di volta in volta si animano per accompagnare la danza. 


Blanca Li non è nuova a questo argomento data la sua esperienza come coreografa di video musicali come quello celebre dei Daft Punk, Around the World (1997), dove figuravano quattro danzatori nel ruolo di robot, ma in questo caso Li ci propone dei robot veri, piccole creature umanoidi, i NAO, prodotti dalla Aldebaran Robotics, che si confrontano sul palco con la complessa articolazione del movimento eseguita dagli otto danzatori della compagnia. Si tratta di un esperimento interessante ma solo parzialmente riuscito, dato che i NAO spesso cadono in avanti spezzando un po’ la magia della loro presenza in scena. Inoltre Li sceglie di renderne uno protagonista di una scenetta di seduzione piuttosto ridondante e stereotipata. I danzatori sono molto bravi nell’eseguire la partitura coreografica, anche se a volte ricadono in uno stile un po’ rétro. Le scenografie di Pierre Attrait e le luci di Jacques Chatlet sono magnifiche visioni che contribuiscono con efficacia a creare l’atmosfera quasi cibernetica dell’opera.



Masako Matsushita in De Visu in Situ Motus, foto Luigi Gasparroni.
Con gli occhi ricolmi di robottini e di sfavillanti coreografie, ci accingiamo, un po’ stanchi ad andare verso il Teatro Cecchetti dove si tiene l’ultimo appuntamento della serata, De Visu in Situ Motus di Masako Matsushita. E di nuovo ci troviamo di fronte ad un cambiamento di atmosfera, dove sedici persone di varia struttura fisica sono allineate in fondo al piccolo palco, indossando dei jeans e delle magliette colorate. Sono tutti scalzi e di schiena. Sul palco poi arriva Gabriella Biancotto, vestita di un top e pantaloni blu e presto la raggiunge Masako Matsushita, vestita in modo simile ma con abiti di colore grigio chiaro. Le due donne entrano in relazione fra loro, a terra si avvinghiano in un abbraccio che le porta anche a spostarsi come se fossero un unico corpo. Il tema trattato è quello del confronto e viene delineato in modo originale e stimolante. Nel frattempo le sedici persone in fila si tolgono la maglietta e iniziano ad incurvare la schiena molto lentamente, creando un sublime contrappunto. La coreografia si sviluppa ulteriormente dando vita a nuove immagini suggestive come quella che vede Matsushita prendere delle lunghe strisce di stoffa nera dalla posizione dove si trovano le sedici persone allineate che man mano se ne vanno. Forse l’opera necessita di una messa a punto, di un’ulteriore tensione verso la sintesi, ma devo dire che è il finale ideale per una maratona di danza di alto livello. 


26 agosto 2013

lunedì 19 agosto 2013

Du Liebst Mich Zu Viel di e con Helen Cerina


Disconnessione! Du Liebst Mich Zu Viel di e con Helen Cerina

Teatro Lauro Rossi, Macerata, 23 aprile 2013, ore 11

Helen Cerina in Du Liebst Mich Zu Viel, foto di Dario Bonazza.
 La disconnessione. Questo il termine-chiave alla base del lavoro di Helen Cerina, Du Liebst Mich Zu Viel, dove interagisce in modo superbo con suono, spazio e vari oggetti presenti sul palco. E il senso di disconnessione per il pubblico inizia ancor prima dell’inizio, con il titolo in tedesco che trasporta il pezzo in un angolo remoto della mente, almeno per chi non conosce questa lingua. Soprattutto se pensiamo che, in questa specifica occasione, il pubblico è rappresentato principalmente da studenti delle superiori specializzati nel campo della moda, studenti che non sono abituati a vedere opere di danza contemporanea. 


Il titolo è comunque interessante in rapporto alla parola-chiave di cui sopra, “mi ami troppo” e rimanda forse all’immagine romantica dell’amore, quella alla Romeo e Giulietta per intenderci. Ma qui di nuovo avviene un’altra disconnessione: man mano che la coreografia si sviluppa, constatiamo che non vi è alcun movimento che ricordi una tragica storia d’amore. Tantomeno dagli oggetti presenti in scena: un registratore per cassette portatile, un microfono, una cassa, un pannello rettangolare con superficie luminosa. Inoltre non vi è nessuna musica. L’atmosfera è rarefatta e sembra organizzata in modo approssimativo, ma non è così e ben presto scopriamo che proprio la dinamica creata da Cerina sul palco costruisce un percorso percettivo e cinetico che contribuisce a dar senso allo spazio spoglio come anche agli oggetti che lo popolano.


La coreografia si apre con Cerina che giace sul palco sulla sinistra. Indossa un’ampia t-shirt bianca e un paio di pantaloni da tuta neri. Nella chiacchierata dopo la performance, Cerina spiega che non era sua intenzione attirare l’attenzione sul costume e voleva indossare i colori bianco e nero. Inoltre le piaceva come la t-shirt si muoveva a seguito dei suoi movimenti. Il costume è semplice, neutro, ma frutto di una scelta oculata anche rispetto a come cambia o arricchisce il movimento stesso.


Cerina poi si alza ed esegue una camminata laterale con un movimento di braccia circolare a cui segue un movimento disarticolato delle gambe. È come se il corpo fosse pianificato per andare in una direzione e una delle gambe nella direzione opposta. Non vi è traccia alcuna di passi legati alla danza classica.


Il pezzo inscena una interazione particolare con la musica. Cerina di solito evita di utilizzare la musica nel suo lavoro. La usa a volte durante le prove per elaborare un certo ritmo per le sezioni di ogni parte della coreografia, ma poi non la utilizza nello spettacolo vero e proprio e danza in silenzio. In Du Liebst Mich Zu Viel, la giovane coreosofa addirittura produce dei suoni con la voce al microfono e con il microfono percosso sul corpo. Vi è un meraviglioso senso di frammentazione e incompiutezza mentre si muove da una sezione all’altra, da un oggetto all’altro. Non le interessa fare errori, così che l’elemento dell’imprevedibilità che caratterizza ogni performance, non la disturba affatto.


Oltretutto l’assenza di musica le permette di percepire più acutamente la risposta del pubblico, risposta che, ogni volta in modo diverso, attiva una reazione da parte sua. Se vi sono degli sbadigli o una grande concentrazione, Cerina lo percepisce e questo può portare al cambiamento di un passo o del ritmo della danza. Questo ovviamente dipende anche da come sta lei, da come si sente quel giorno, se è più o meno stanca, più o meno concentrata.


Il momento più poetico e toccante e forse l’unico che potremmo ricondurre al titolo di questa coreografia, è quando Cerina lancia dei petali di rosa rossi sulla propria testa e corpo, mentre il piccolo registratore riproduce il suono di alcuni spari. Non vi è pathos nella sua interpretazione, ma il contrasto fra suono e immagine è forte e porta a pensare all’amore come ad un’esperienza crudele e comunque dolorosa. 


Cerina collega l’idea dell’amore a quella di arte nel senso che un coreografo e danzatore crea un lavoro come una sorta di dono di amore per il pubblico, a prescindere dalla reazione del pubblico stesso.Il controllo che Cerina ha sul proprio corpo è sbalorditivo e la sua visione coreutica una ventata di aria fresca nel panorama della danza locale e non solo!


Nota – Questa performance fa parte della piattaforma Matilde, un progetto della Regione Marche e Amat. È stata prodotta da Goue in collaborazione con The Place, London, Operaestate Festival, Dansateliers, Dansescenen, Dance Week Festival Zagreb, Certamen Coreografico de Madrid, Reiss Arti Performative, Daghda Dance Company, Residenza Nottenera.


19 agosto 2013

giovedì 15 agosto 2013

Stare in piedi

Forse la vita è una questione di posture. Come ci relazioniamo al nostro corpo e come esso sta al mondo e nel mondo. La schiena dritta, la schiena piegata, la schiena di lato. Ricordo che da piccola mia madre temeva per la mia schiena, temeva mi venisse la scoliosi, chissà che bambina sarei stata con la scoliosi.


Martha Graham, foto di Soichi Sunami.
Secondo la coreosofa statunitense Martha Graham, il termine ‘postura’ rimanda a “quell’istante di apparente immobilità di quando il corpo è bilanciato per l’azione più  intensa e impercettibile, il corpo nel momento della sua efficienza potenzialmente più grande” (Graham, 1941: 181). E una di queste posture è quella che, a quanto pare, ci contraddistingue come esseri umani, la posizione eretta. Lo stare in piedi su due gambe invece che su gambe e braccia. 


Questa postura si collega allo stare immobili, ma, come suggerisce Graham, lo stare immobile è solo apparente, in quanto stare fermi e stare fermi in piedi comporta il mantenimento di un equilibrio. Graham di nuovo ci fornisce degli spunti interessanti, “come in qualsiasi altro edificio architettonico, il corpo viene mantenuto eretto dall’equilibrio. L’equilibrio è una sottile relazione che viene mantenuta lungo le varie sezioni del corpo” (Graham, 1941: 182-183).

Lo studioso statunitense Scott Abbott parla dello stare in piedi da un punto di vista metaforico ed, elencando termini collegati alla radice ‘sta’ (costantemente, insistentemente, ostinatamente, circostanze, esistenza, sistematico, resistere) sottolinea come “la metafora dello stare in piedi determini il nostro concetto di tempo e spazio; plasmi il nostro modo di intendere l’esistenza e l’estasi (...). In breve, ogni volta che gli esseri umani hanno prestato attenzione scientifica o artistica allo status di esseri umani, lo hanno fatto attraverso la metafora dello stare in piedi” (Abbott, 2011).


Ne la Sagra della primavera del coreosofo russo Vaclav Nijinskij, la danzatrice che interpreta il ruolo dell’Eletta, nel secondo atto, deve restare immobile in piedi, ginocchia piegate, mani sulle ginocchia e testa di lato, per circa dieci minuti. Dopo di che danzerà il suo assolo finale. Cosa significa questo? Che tensione si deve creare nel corpo per mantenere uno stadio di equilibrio di questo tipo?


Erdem Gündüz, "l'uomo in piedi".
Stare fermi, mantenere un equilibrio, posizionarsi nel tempo e nello spazio, resistere. È a questo ultimo termine che mi aggancio per trattare di una particolare forma di resistenza che, in due contesti piuttosto differenti, ha trovato nell’atto dello stare in piedi la sua affermazione più forte, potente e sovversiva.


Il primo esempio è quello del coreosofo turco Erdem Gündüz che ha messo in atto una protesta singolare e di forte impatto attraverso l'atto dello stare in piedi. Dalla fine di maggio ad Istanbul si sono create delle proteste spontanee per contestare la decisione del governo di creare un nuovo centro commerciale dove ora è il Taskim Gezi Park. Il 17 giugno Gündüz è andato a Gezi Park ed è rimasto in piedi immobile e in silenzio per circa cinque ore guardano l'immagine di Mustafa Kemal Atatürk, il fondatore della Turchia moderna, immagine che si staglia su di un palazzo che dà sul parco. Le foto mostrano Gündüz con i capelli legati dietro la nuca, una camicia bianca e un paio di pantaloni neri, le mani in tasca e lo zaino fermo ai suoi piedi. Questa forma di protesta si è subito propagata per il paese e sui social network, conferendo al coreosofo l'hashtag su twitter di #duranadam, "uomo in piedi" in turco.

Pochi giorni dopo, il 25 giugno nello Stato del Texas, la senatrice Wendy Davis è rimasta in piedi per dieci ore in un atto di filibustering (procedura parlamentare che permette di discutere un progetto di legge ad oltranza causando anche la posticipazione del voto), sabotando di fatto una legge che avrebbe limitato il diritto all'aborto in Texas. Davis si è preaprata coscienziosamente, indossando delle scarpe da ginnastica e mangiando uno snack prima di iniziare a parlare. Il voto è stato fatto dopo la mezzanotte e per questo dichiarato nullo. Il progetto di legge è poi stato approvato, ma per quel giorno Davis ha messo in atto un tipo di resistenza davanti alla quale il Senato nulla ha potuto fare per contrastarla.
Questi due atti hanno un precedessore illustre nello studente, anch'egli in camicia bianca e pantaloni neri che il 5 giugno del 1989, a seguito del massacro di studenti, intellettuali e operai uccisi dalle forze militari mentre protestavano a Pechino in Piazza Tiananmen, si è messo in piedi fermo davanti ad una fila di carroarmati, divenendo il simbolo delle proteste di Pechino.

Wendy Davis durante il suo filibustering.
Lo stare fermi in piedi è un atto di affermazione forte, come suggerisce Abbott. Ma quello che questi atti di protesta ci dicono è che lo stare fermi in piedi in luoghi particolarmente significativi come Gezi Park, la sede del Senato dello Stato del Texas e Piazza Tiananmen può rappresentare anche un modo inusuale e potente di manifestare il proprio dissenso, un modo che destabilizza e indebolisce soprattutto a livello simbolico il sistema. E lavorare sul piano simbolico è uno dei passi fondamentali per operare un cambiamento.
E allora tutti in piedi!


(Nota: le traduzioni dall'inglese sono a mia cura.)


TESTI CITATI E NON LINKATI

Scott Abbott, "Standing: Random Thoughts", in Standing as Metaphor: Homo Erectus in the Culture of Homo Sapiens, http://onstanding.wordpress.com/2011/12/30/standing-random-thoughts/, 30 dicembre 2011 (consultato 15 agosto 2013) 

Martha Graham, "A modern dancer's primer for action", in Dance - A Basic Educational Technique, ed. Frederick Rand Rogers (New York: MacMillan Company, 1941), pp. 178-187.


15 agosto 2013 

sul termine 'coreosofia'



Rudolf Laban nel suo studio a Dartington Hall (1938), Inghilterra. Foto della collezione Gordon Curt.
La parola 'coreosofia' deriva dal greco 'χορός' (coros, danza) e 'σοφία' (sofia, sapienza) e designa lo stratificato insieme di conoscenze che si hanno sulla danza. Il termine 'coreosofia' mette insieme la parola 'danza' e 'sapienza', come a suggerire che l'arte coreutica è in grado di produrre conoscenza, fatto importante se pensiamo che ancora oggi si tende a limitare la danza al movimento meccanico del corpo (che può pure andar bene, ma non è il discorso che si vuole fare in questa sede).

Fu utilizzata dal teorico della danza Rudolf Laban (nella foto) nel suo testo Choreutics (1966), oltre ad altri termini quali coreografia e coreologia, sui quali si tornerà in un altro momento. Laban fa riferimento al suo uso nell’antica Grecia: "la coreosofia sembra sia stata una disciplina complessa al tempo della cultura ellenica più alta" (Laban, 1966: viii) e parla anche del suo uso nella matematica di Pitagora (il termine 'coros' è anche riconducibile al significato di cerchio).  

In un altro testo, Laban aveva anche coniato la poetica espressione del 'pensare-in-movimento' e parlando del mimo sosteneva che si avesse "bisogno di un simbolo autentico della visione interiore per realizzare un contatto con il pubblico" che poteva essere raggiunto solo se si è "imparato a pansare in termini di movimento" (Laban, 1999: 23). Anche in questo caso unire le parole 'pensare' e 'movimento' rimanda ad un'idea di danza come di un'arte collegata a questioni dell'intelletto, anzi ad una capacità della danza di s/muovere l'articolazione del pensiero e del pensare.

Il termine 'coreosofia' ritorna negli scritti di Aurelio Milloss, il quale la definisce "la disciplina che si occupa della danza dal punto di vista morale" (Milloss, 2002: 64). In questo caso, quindi il termine 'sapienza' viene declinato secondo una visione diversa da quella da me suggerita. Più avanti Milloss prosegue dicendo che la coreosofia "è intesa ad analizzare in generale le apparizioni e manifestazioni della danza della vita umana" (Milloss, 2002: 64), proponendo una visione mistica del termine, laddove la danza viene considerata come l'arte dalla quale iniziano le altre arti, "così ebbe origine dal ritmo dei movimenti la danza, dal ritmo delle parole il verso, dal ritmo dei suoni il canto e la musica" (Milloss, 2002: 65). Il far risalire le altre arti alla danza per via del movimento che le accomuna, è un credo che, come sottolinea Stefano Tomassini, era già stato espresso da Curt Sachs nella sua celebre Storia della danza (Tomassini in Milloss, 2002: 65). Ora stabilire una gerarchia fra le arti nell'attuale panorama accademico dove prolifica la filosofia molecolare deleuziana come anche la messa in discussione della visione binaria e dicotomica della realtà (bianco/nero, natura/cultura, donna/uomo ecc.) non ha più molto senso e parlarne ora aprirebbe una digressione piuttosto lunga. Basti dire che secondo Milloss la coreosofia è uno strumento di analisi collegato alla danza inteso come fenomeno umano.

La parola 'coreosofia' torna nei disorsi di Alessandro Pontremoli allorquando egli tratta dei padri e delle madri della danza contemporanea definendo il loro lavoro con l'espressione di "pensiero coreosofico" (Pontremoli, 2004: xxi) e, parlando di Laban, riprende la definizione che abbiamo visto ne dà Milloss, dicendo che la coreosofia è la "filosofia della danza" e ne "stabilisce (...) i principi etici ed estetici" (Pontremoli, 2004: 70).

Di recente è stato creato il termine 'filmosofia' e Daniel Frampton ci ha scritto anche un libro, Filmosophy pubblicato nel 2006. Egli sottolinea che l'arte del cinema non ha solo a che fare con la riproduzione della realtà, quanto con la creazione di una nuova realtà (Frampton, 2006: 5). Il cinema, inoltre, ha prodotto un modo nuovo di pensare (Frampton, 2006: 7) per cui vi è la necessità di ragionare sul cinema in termini di 'mente' e 'pensiero' (Frampton, 2006: 10). Il discorso che egli fa è piuttosto interessante, ma sembra ricadere nella dicotomia mente/corpo e sembra lasciare indietro un'analisi della materialità del cinema. Il termine 'filmosofia' è per Frampton riconducubile esclusivamente a questioni dell'intelletto e della mente, mentre la coreosofia, come abbiamo visto, si concentra sullla sapienza che la danza può produrre integrando mente e corpo in una raffinata sinergia.

Parlando di grandi figure della danza (nel Novecento possiamo ricordare Martha Graham, Merce Cunningham, Trisha Brown, Anne Teresa de Keersmaeker,Tero Saarinen e la Compagnia Abbondanza Bertoni ecc), soprattutto di fgure che hanno sviluppato un sistema di coreo-pensiero attorno al loro fare danza, utilizzare il termine 'coreosofo/a' piuttosto che 'coreografo/a' sarebbe ausicabile per fornire un quadro più ampio del loro lavoro.

La danza ha una sua terminologia e 'coreosofia' è uno dei termini meno usati ma più stimolanti per sottolineare la complessità di ricerche sviluppate attorno al corpo in movimento. 

(Nota: le traduzioni dall'inglese, ove non specificato,sono a mia cura.)

TESTI CITATI

Daniel Frampton, Filmosophy - A manifesto for a radically new way of understanding cinema (London: Wallflower Press, 2006). 

Rudolf Laban, L'arte del movimento [ed. or. 1950], trad. Silvia Salvagno (Macerata: Ephemeria, 1999). 

Rudolf Laban, Choreutics, a cura di Lisa Ullmann (London: MacDonald&Evans Ltd., 1966).  

Aurelio Milloss, Coreosofia - Scritti sulla danza, a cura di Stefano Tomassini (Venezia: Leo S. Olschki, 2002). 

Alessandro Pontremoli, La danza. Stroria, teoria, estetica nel Novecento (Bari: Laterza, 2004).


15 agosto 2013

domenica 11 agosto 2013

Danzare il rito

Ada D'Adamo, Danzare il rito - Le Sare du printemps attraverso il Novecento (Roma: Bulzoni, 1999).


Le Sacre du printemps, the Rite f Spring, la Sagra della primavera. Rito, danza, sacrificio. La coreografia è l'opera più importante dei Balletti Russi capeggiati dall'eclettico Sergej Djagilev. Ideata da Vaclav Nijinskij nel 1913 sull'ormai celeberrima musica di Igor Stravinskij, è un'opera culto, punto iniziale della contemporaneità e fonte inesauribile di continue rivisitazioni. Riprese i riti pagani del folclore russo e si ispirò ai sacrifici umani al dio sole Yarilo, con le scenografie di Nicholas Roerich, che non era solo un pittore affermato, ma anche scrittore, teosofo, archeologo e filosofo che contribuì alla genesi del balletto in modo preponderante, nonostante il suo ruolo sia rimasto in secondo piano rispetto a quello di Nijinskij e Stravinskij.

Lo studio di Ada D'Adamo presenta un'analisi dettagliata della coreografia di Nijinskij e delle sue rivisitazioni più significative nel corso del Novecento, come quelle di Maurice Bejart e Pina Bausch. Com'era la Sagra della primavera del 1913? In realtà non lo sappiamo con certezza, in quanto la coreografia è andata perduta, anche se ha lasciato dietro di sé una scia luminosa di documenti e testimonanze, a cominciare dai bozzetti di Roerich e le testimonianze di figure vicine a Nijinskij, come la sorella Bronislava. Certo è che la prima rappresentazione fu uno scandalo, con il pubblico che si espresse con "risate, fischi, battute" tanto che, come sottolinea una delle danzatrici, Marie Rambert (che sarebbe divenuta strumentale per lo svipullo del balletto britannico), "cercavamo tutti disperatamente di tenere il tempo pur senza udire chiaramente il ritmo. Tra le quinte Nijinskij ci guidava contando le battute (...). Dopo l'intervallo le cose peggiorarono e durante la danza del Sacrificio si scatenò un vero pandemonio".

Perché il Sacre scatenò così fortemente le ire del pubblico? Due sono gli elementi radicalmente innovativi: la musica e la coreografia. La musica di Stavinskij si caratterizzava per un ritmo dissonante con parti poliritimiche e bitonali. D'Adamo non si sofferma sull'analisi musicale, in quanto è la coreografia il centro del suo studio. E la coreografia di Nijinskij fu una vera rottura col passato accademico del ballerino e coreografo che ideò dei movimenti en dedans, con la rotazione dei piedi in dentro, così da limitare alquanto le possibilità di movimento delle gambe; aggiunse un incurvarsi della schiena dato dal piegamento delle ginocchia, "con uno spezzettamento di tutti i segmenti del corpo". Nijinskij si ispiarava ad un primitivismo arcaico che tendeva a negare i principi formali della danza classica sulla quale si era formato, come i piedi en dehors (ruotati in fuori), "l'estensione, la verticalità (...) l'uso delle punte". Ebbe, a questo proposito, numerose difficoltà con i ballerini per i quali era complicato allontanarsi dalla tecnica accademica per 'deformare' il corpo secondo le sue indicazioni.

La critica fu spaesata dalla forza animalesca della danza e dalla musica così fragorosa. Vi fu chi lodò gli interpreti e chi criticò addirittura il comportamento del pubblico, come Pawlowski che "è il primo ad usare l'espressione Massacre du Printemps per definire l'atteggiamento 'scandaloso'" del pubblico. In particolare, da lui in poi si fa una distinzione fra il Nijinkij ballerino e il Nijinkij coreografo, dove il primo viene esaltato per le sue doti tecniche e interpretative, mentre il secondo viene giudicato un artista mediocre. Altri, come Octave Mause, collegano l'articolazione del movimento del Sacre alla ginnastica ritmica di Jaques-Dalcroze per via della "perfetta armonizzazione di musica e danza ottenuta dal coreografo". E Jacques Rivière è il critico che produce l'analisi più significativa, definendo il Sacre "un balletto biologico. Non è solo la danza dell'uomo più primitivo; è anche la danza di prima dell'uomo (...). E' la primavera vista dall'interno, la primavera nel suo sforzo, nel suo spasimo, nella sua germinazione".

Come si è detto la versione del 1913 è andata perduta, ma nel 1987 il Joffrey Ballet presenta a Los Angeles la ricostruzione fatta dalla coreografa, storica della danza e disegnatrice Millicent Hodson in collaborazione con lo storico dell'arte Kenneth Archer, riportando in vita una buona parte del lavoro di Nijinskij. 

Nel 1920 Djagilev chiese ad un altro coreografo, Leonid Mjasin, di ricreare il Sacre, mantenendo la musica di Stravinskij, che sarà comunque il filo conduttore di pressoché tutte le altre rivisitazioni. Nijinskij si era ormai da tempo allontanato dai Balletti Russi a causa di una malattia mentale che lo stava divorando e Djagilev si affidò a Mjasin per una nuova versione. Mjasin non riprese la marcata animalità di Nijiskij e, nonostante il suo uso dei piedi in parallelo, si basò però su di un "rigore classico su cui si innestano una varietà di movimenti delle braccia e del torace". Compose un balletto astratto, studiando approfonditamente la musica e restituendole così "il suo valore di costruzione architettonica". 

Nel capitolo che chiude la prima parte D'Adamo poi traccia un bel panorama sulla concezione del corpo nel Novecento, per mostrare come la coreografia di Nijinskij risulti più comprensibile se contestualizzata e messa a confronto con gli ideali del corpo che nel primo Novecento si erano sviluppati. Esempi significativi furono la concezione del "corpo naturale" di Isadora Duncan e il ritorno alla natura propugnato dalla comunità che visse a Monte Verità, in Svizzera, comunità che "lottava per liberare il corpo da ogni costrizione", comunità che vide fra i suoi adepti anche il teorico della danza Rudof Laban e la danzatrice e coreografa Mary Wigman.

Nella seconda parte vi è la presentazione di alcune delle più importanti revisioni del Sacre, come quella "auto-mitizzante" di Mary Wigman stessa (1957), quella sensuale di Maurice Bejart (1959), quella del "conflitto tra i sessi" di Pina Bausch (1975), quella giapponese-domestica di Mats Ek (1984) e quella sciamanica di Martha Graham (1984). Fra queste quelli di Bejart e Bausch sono i  remake forse più celebri. Il primo trasforma il sacrificio del'Eletta nell'accoppiamento fra uomo e donna, celebrando, come sottolinea Bejart stesso, "l'amore umano", mentre il secondo mette in scena il fronteggiarsi dei sessi affidando a uomini e donne una "diversa qualità del movimento" e mettendo in discussione il ruolo dell'Eletta, portando così gli spettatori a riflettere "sul perché il sacrificio rituale debba essere legittimato all'interno della società".

La terza ed ultima parte del libro è forse uno degli apporti più affascinanti del testo, dato che si concentra sui remake fatti in Italia, come quello di Aurelio Milloss (1941 e 1967), Ugo dell'Ara (1972), Vittorio Biagi (1975), Efesto (1987) e GMM (Giovanotti Mondani Meccanici) (1989). Il volume si conclude con alcune versioni fatte nel corso degli anni Novanta, fra le quali spicca quella della canadese Marie Chouinard (1993), dove il rito sacrificale diviene uno studio scientifico sull' "apparizione della vita nella materia".

11 agosto 2013

domenica 4 agosto 2013

Danza e Rinascimento

Alessandro Pontremoli, Danza e Rinascimento - Cultura coreica e "buone maniere" nella società di corte del XV secolo (Ephemeria: Macerata, 2011).


Il binomio danza e Rinscimento non è molto popolare. Eppure è da qui, da questo binomio che la storia della danza ha vissuto una svolta e gli storici hanno iniziato ad indagare quelle che, nel Quattrocento, "non sono oggetti, ma pratiche, che ci sono giunte soprattutto attraverso i trattati, (...) traccia di evidenti processi di conservazione e trasmissione di azioni etichettate come danze".

Il volume è il frutto di venticinque anni circa di studio che Pontremoli ha condotto su questo argomento e costituisce una sintesi puntuale della sua ricerca, che conferma alcuni risultati e ne trasforma altri alla luce di nuove scoperte fatte nel corso degli anni. Non è solamente un testo sulla danza del XV secolo, ma è anche una rilfessione considerevole sulla storia della danza.

Di particolare interesse è, in questo senso, l'introduzione che costituisce un excursus di ampio respiro sulla danza "come ostensione del corpo entro parametri di volta in volta ridefiniti da coordinate spazio-temporali, culturali, storiche, sociali e comunitarie". Per questo si sostanzia come evento "portatore di senso" e studiarla dl punto di vista storico vuol dire esplorare il passato per comprendere come questo evento abbia avuto luogo, secondo che modalità e che significato esso abbia avuto. Pontremoli enumera poi alcuni concetti chiave che sono stati particolarmente significativi nel corso dei suoi studi: contesto, che collega la danza ad altre pratiche ed eventi, senza isolarla in una visione prettamente formalista; o sguardo, che presuppone una consapevolezza del proprio punto di vista di studioso, della propria formazione e di come questa possa influenzare la ricerca che si porta avanti; o corpo, che ha un ruolo fondamentale nello studio di quest'arte, per cui "le testimonianze documentarie sulla concezione e l'uso del corpo in un determinato contesto storico, culturale e sociale" sono davvero importanti.

Nel Quattrocento due sono i trattatisti più conosciuti, Domenico da Piacenza e Guglielmo Ebreo da Pesaro. Entrambi condividono "una comune costuzione teorica" indirizzata verso un modo di concepire la danza come una vera e propria arte. Il loro lavoro è rivolto a principi e monarchi che praticano la danza all'interno dei "contesti festivi" non tanto per lasicarsi andare a danze particolarmente sfrenate (la danza di corte non si può certo definire tale), quanto piuttosto per mostrare il loro status sociale e la loro capacità di autocontrollo.

Domenico da Piacenza  rappresenta il capostipite dei trattatisti. Probabilmente era un ballerino conosciuto, ma altrettanto probabilmente non scrisse fisicamente lui il trattato De arte saltandi et choreas ducendi, che risulta "vergato da almeno sei amanuensi" ed è suddiviso in due parti, una teorica che vanta riferimenti anche all'Etica Nicomachea di Aristotele, ed una pratica che presenta una serie di danze. Grazie a questo trattato l'arte coreutica inizia ad essere vista come un'arte di pari dignità rispetto alle altre arti liberali come la musica, in quanto non ha solo a che fare con il movimentio del corpo ma anche con la capacità della mente di apprendere e rispettare delle regole. A questo proposito possiamo considerare quest'opera, come anche quella di Guglielmo, come parte integrante di quel processo di "formalizzazione dei saperi" della cultura e società umanistico-rinascimentale che contribuisce alla standardizzazione delle pratiche coreutiche nelle corti italiane e non solo. Pontremoli ci mostra questo processo con l'esempio della piva, una danza popolare che viene 'ingentilita' nel momento in cui entra a far parte delle danze di corte.

Il trattato di Guglielmo, De pratica seu arte tripudii, può considerarsi un vero e proprio "manuale di pedagogia della danza, concepito per l'educazione del principe". A differenza di quello di Domenico, è impreziosito da varie miniature e intriso di riferimenti alla filosofia neoplatonica filtrata attraverso il pensiero di Marsilio Ficino. Sempre poi discostandosi da Domenico, Guglielmo esalta l'artificio parlando del "procedere aeroso del movimento, ottenuto con un'esecuzione, in prevalenza in mezza punta". Compone delle danze astratte e, se da un lato fa derivare la danza dalla musica, dall'altro parla anche "del danzare senza suono", che Pontremoli riconduce ad un tipo di danza senza musica di tipo magico o rituale che si eseguiva in circoli chiusi. 

Accanto all'analisi del lavoro di questi due trattatisti, Pontremoli inserisce un sofisticato discorso sull'articolata simbologia legata agli abiti di chi si cimenta con la danza di corte, sulla questione della pratica coreutica che emerge dai trattati e non solo, sul ricorrente richiamo alla natura (anche magica) e alla mitologia classica e su di un prezioso panorama sulla nascita della storiografia della danza in età moderna, con particoalre attenzione alla formazione del "senso della storia", del passare del tempo e della capacità che già all'epoca si aveva di storicizzare gli eventi.

4 agosto 2013

Come tutto ha avuto inizio


Il mio progetto di ricerca su Letter to the World è iniziato a metà degli anni Novanta circa con la decisione di dedicare la mia tesi di Laurea in Lingue e Letterature Straniere Moderne al rapporto fra Martha Graham e la letteratura nordamericana. Ricordo ancora quando vidi la traduzione italiana dell'autobiografia di Graham, Memoria di sangue (vedi foto), sulla vetrina di una libreria nella mia città. La acquistai e scoprii un mondo fatto di movimento e parole (che da allora è divenuto il filone di studi che nutre il mio percorso), un mondo mistico e pieno di fascino.
Chiesi quasi timidamente alla professoressa con la quale studiavo se potevo concentrarmi su Graham per la mia tesi ed ella rispose che era da un po' che voleva dare una tesi su di lei, per cui il mio viaggio iniziò sotto l'auspicio di una buona stella. Dedicai l'ultimo capitolo della tesi a Letter to the World, ma sin da subito capii che era una coreografia che meritava uno studio ben più approfondito.
Da allora non ho mai smesso di analizzare quest'opera, che tuttora si rivela essere un capolavoro di eleganza e introspezione.

4 agosto 2013